martedì 3 dicembre 2013

LA CITTA' CINESE


Quella di Prato non è una tragedia del  lavoro, è l’ennesima affermazione dell’indifferenza e
dell’ipocrisia dello stato e delle istituzioni. E’ un’altra sconfitta della legalità e della politica.
Da decenni, se non da sempre , si conosce la realtà tessile di Prato. Centinaia di inchieste, articoli di stampa e servizi dei vari Santoro, Gabanelli, Iacona e Formigli ce l’hanno raccontata e documentata, nei particolari.

A Prato, c’è la più alta concentrazione di lavoro nero.  In quella comunità vivono migliaia di persone in condizioni di autentica schiavitù e sfruttamento.
Tutti cinesi, alcuni diventati imprenditori di quei nuovi schiavi, che lavorano 16 ore al giorno, senza aria, né luce naturale, in orribili capannoni industriali, dove pure mangiano, tra cucine improvvisate, sacchi e scarti di lavorazione, e dormono su giacigli in loculi di cartone. Non escono mai, son come segregati, quasi sepolti vivi.
Si possono immaginare le condizioni igieniche, il clima e gli odori.

In questi sporchi e disumani capannoni si produce, a ciclo continuo e non solo a basso costo, merce varia che finisce nei mercati e nella grande distribuzione. Anche pelletteria e abbigliamento di grandi marchi e firme prestigiose.
Ma a un cinese che cuce un pantalone vanno 40 centesimi di guadagno.

Ma dove sono i controlli, le verifiche delle norme e dei flussi di denaro, la prevenzione da parte delle amministrazioni? In quel Far West cinese non arriva mai una procura, un curioso magistrato e nemmeno Equitalia?

E, intanto, per convenienza, la catena di quella produzione si chiude nel mondo dei consumi. Per risparmiare, si continua a mangiare nei ristoranti cinesi e a comprare magliette e giocattoli da due soldi, diventando così complici di quel  mercato d’illegalità e di sfruttamento, che si rinnova e si alimenta.
Crescono e si diffondono negozi, licenze ed esercizi vari in tutt’Italia, acquistati in contanti a belle cifre, anche per merito di accordi fra mafie locali ed orientali, che in queste attività lavano e riciclano ingenti quantità di denaro sporco. 

Le comunità cinesi si insediano, vivono e muoiono secondo i loro usi, senza tentare la minima integrazione con la realtà territoriale che le ospita, nella reciproca apatia.
Solo il dramma che si trasforma in cronaca, scopre un’evidenza da terzo mondo e la vergogna. Ci scandalizza e ci costringe alla retorica della schiavitù e dello sfruttamento.
Ce ne accorgiamo quando va a fuoco un capannone e sette schiavi, sette invisibili, senza nome e identità, ci lasciano la pelle.
Anzi, nemmeno quella, solo carbone!


3 dicembre 2013                           
 AlfredoLaurano                                                                                                                                                                         

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