sabato 20 gennaio 2018

BENEDETTA MUSA, SACRA FOLLIA

Qual è la benedetta follia di Guglielmo, depresso e malinconico titolare di un impeccabile negozio d’arte sacra, abbandonato all'improvviso dalla moglie dopo venticinque anni?   Quella di Luna, giovane ed esuberante borgatara romana, con problemi economici e familiari, che irrompe in mini di pelle o short pants e zeppe da cubista nella sua routine quotidiana e si propone come nuova commessa, con tanto di “er curricula” e quattro parole di inglese masticato, in tutti i sensi?
O quella della botta di vita esagerata e sconvolgente - “basta, non voglio più solo esistere, ma vivere” - procurata da una pasticca di ecstasy, spacciata al poveretto come paracetamolo? 

Fin da subito, si delinea nel film una sorta di conflitto tra sacro e profano, tra materia e spiritualità, tra romanticismo e trasgressione dei sensi e della carne.
Dal cardinale paffuto e godereccio, che a ogni movimento strappa l’abito in prova, alla inappuntabile suora laica polacca, esperta e preparata, altra aspirante concorrente al posto.
Dalla seriosità di costei - quale antitesi evidente - al carattere della sfacciatissima coatta, animata da tanta buona volontà, ma incapace e poco adatta a lavorare in quel genere di negozio, tra musica celestiale, tabernacoli e madonne,  o a quello diametralmente opposto del rassegnato Guglielmo – contrapposto ai modi spicci e violenti degli ex “datori di lavoro” della stessa intraprendente Luna – che, a sua volta, lo travolge, lo ammalia e lo iscrive a un sito per incontri proibiti di single allo sbaraglio, per farlo uscire dal suo guscio di tristezza.
Grazie alle intuizioni della bella neo commessa, il Guglielmo ferito, abituato a pie frequentazioni di alti prelati, incontra vari personaggi femminili in appuntamenti al buio, più comici che erotici, più paradossali che bizzarri e stravaganti: l’alcolizzata disinibita e pratica; l’ipocondriaca logorroica che si districa fra desiderio, colesterolo e glicemia; la ninfomane lasciva alle prese con giochetti spinti di vibrazione al ristorante, che finisce in emergenza ginecologica: “Ma dove l'hai messo? - Nel posto più bello del mondo...! - Ridamme il telefono! - Non posso...”
Caricature e situazioni estreme e surreali, ma nemmeno tanto e non volgari, in linea con le ansie esistenziali e le scelte di tendenza, ma anche condizionate da contraddizioni, possibilità e limiti offerti dalla tecnologia (chat, app, cuori solitari on line, correttore di scrittura, vocabolario facilitato ecc.)
Inizialmente turbato e reticente, il confuso commerciante si rimette in gioco e si confronta allo specchio con un se stesso giovane, con la passione della moto e della musica, facendo emergere la figura di un sessantenne fragile e infelice, consapevole della sua età e condizione sociale, ma che cerca di reagire alla delusione di una moglie sedicente lesbica. 
Coincide e si sovrappone al Verdone d’oggi, maturo e disincantato, che dialoga con quello prima maniera, tutto fico, coatto e un sacco bello. E lo osserva con qualche rimpianto.
“Benedetta follia” comprende tutti gli elementi del suo stile, ormai noto e consacrato: alterna spunti, risate e trovate comiche a momenti di dolce malinconia e nostalgia. Come nella riflessione su quel tempo che "non tornerà mai più", sottolineata dalle stupende note de "La stagione dell'amore" di Battiato, o nei dialoghi riservati e timidi con l’infermiera Ornella. 

Tutta la trama, semplice e originale nello stesso tempo, non sempre, però, è supportata da una adeguata sceneggiatura, tanto da apparire un po’ forzata, disunita e, a tratti, approssimativa. Al contrario dell’eccellente, fluida interpretazione di tutto il cast, veramente “benedetta”. 
Le situazioni che si susseguono sembrano una serie di sketch slegati, quasi casuali, utili a creare occasioni e pretesti di naturale comicità.  
La narrazione, di conseguenza, ne soffre, resta piuttosto discontinua, a volte enfatica o esagerata nei tempi, come nella lunga sequenza dell’allucinazione lisergica e del ballo psichedelico, o nella caratterizzazione sotto tono di certi personaggi di contorno, poco credibili (il padre di Luna, i gestori della discoteca). Tempi, movimenti, battute, espressioni prendono tuttavia corpo e vivacità, grazie alla innegabile capacità di giocare, di far ridere e di prendersi in giro del poliedrico cineasta romano, pur nelle pieghe e nei dettagli di un tessuto frammentato e un po’ sconclusionato.
Vincente, in ogni caso, l’idea di esplorare ancora una volta l’universo femminile attraverso il forte contrasto fra due protagonisti, diversissimi fra di loro, che non recitano, ma si incontrano e simpatizzano empaticamente, tra artifici retorici esilaranti di sicuro effetto.  Fino al finale a sorpresa, imprevedibile e teatrale, quanto improbabile e favolistico, che nulla toglie o aggiunge all’economia narrativa del film, pur svelando quegli equivoci e quel certo pudore che costituiscono la cosiddetta vena “malin-comica” dell’autore.
(Alfredo Laurano)

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