venerdì 28 novembre 2014

RACCONTARE L'AMORE

Per buona parte degli italiani, la televisione è ancora “il vecchio focolare”. Non più come quello della scatola magica e quasi miracolosa che, negli anni cinquanta - sconvolgendo ritmi, usi ed abitudini - entrava nelle case di tutti e riuniva le famiglie, in un clima di stupore, di entusiasmo e di una qualche diffidenza. 
Ma come strumento alternativo e rassicurante, come bene privato di rifugio e di conforto.
 
Oggi, anche se il suo ruolo è profondamente cambiato e impoverito per effetto delle nuove tecnologie, la televisione rappresenta ancora una finestra aperta sul mondo: importa e distribuisce informazione, procura evasione e svago e garantisce una sicura compagnia. All'occorrenza, favorisce anche il sonno e il buon riposo.
Genera, comunque, interesse e partecipazione, in un coacervo di ansie, paure, piacere e disimpegno.
Attraverso messaggi, programmi e palinsesti, orienta scelte d’ogni tipo in ambito sociale, politico, commerciale, didattico e psicologico e condiziona comportamenti individuali e collettivi, .
Il suo potere persuasivo è arcinoto ed innegabile.

Ma, a dispetto dei telegiornali, dell’intrattenimento, delle inchieste e dei tanti talk show che trattano l’attualità, la cronaca, i fatti di sangue, le vicende internazionali e le chiacchiere renziane sul Jobs act, è la grande fiction che decisamente conquista il pubblico televisivo.
Ci sarà pure un perché!
Overdose da eccessiva esposizione informativa? Saturazione del livello di guardia cognitivo? Stress da iperconnessione non stop e da bombardamento mediatico di offerte e servizi irrinunciabili?

E’ un momento sicuramente difficile, dove la crisi economica e del lavoro si sovrappone alle tante forme di guerra nel mondo e di violenza nelle città, nelle strade e nelle periferie. Dove l’odio e il razzismo si confrontano e si scontrano con la paura e l’insicurezza. Dove i diritti sono sconfitti dall’abuso e dal degrado. Dove l’altro è sempre un nemico che ci minaccia e mette a rischio certezze, garanzie e privilegi.

C’è stanchezza, timore, disamore, disgusto e intolleranza. Cresce la rabbia e la protesta, l’esasperazione e la voglia di Far West, che qualcuno alimenta, soffiando sul fuoco della diversità e della contrapposizione. Si aggrava il malessere sociale, il disagio e la misura della sopportazione è colma e rischia di esondare.
Aumenta il disinteresse e la disaffezione alla cosa pubblica, al confronto delle parti.
A votare vanno sempre in meno e vince sempre l’astensione.

Per tutto questo, forse, e per legittima difesa, sale e si diffonde una gran voglia di serenità e semplicità, un sentito bisogno di normalità e di storie a lieto fine, dove i personaggi sono umani, con tutti i limiti, le contraddizioni e le fragilità di ognuno e di chiunque.

Uomini, donne e bambini che amano, ridono, soffrono, combattono, piangono ed esprimono sani sentimenti. Che dopo un po’, trascendono dalla propria lodevole sceneggiatura, perdono i contorni della virtualità narrativa e diventano una specie di parenti, di vicini di casa o amici di famiglia, a cui ci si affeziona veramente.
Quando tutto ciò si realizza, con capacità e qualità, nel rispetto dei fatti, di una fedele analisi storico-temporale e di una corretta interpretazione filologica si raggiunge l’acme del successo popolare: la narrazione si fa fluida e si traduce in poetiche sequenze che catturano un’emozione collettiva.
In fondo, coltiviamo e conserviamo sempre un certo desiderio di favole e magia, unito a un pizzico di sano romanticismo.

Proprio come la prima serie, anche la seconda stagione di “Questo nostro amore” ha ottenuto, quindi, un larghissimo consenso.
Puntata dopo puntata, il pubblico si è appassionato alle vicende delle due famiglie (quella dei concubini Anna e Vittorio e degli immigrati Teresa e Salvatore e relativi figli), che a Torino vivono il clima e i cambiamenti dell’Italia degli anni ‘60 e ‘70. 
Tra censure e bigottismo, tra amori e tradimenti, tra pregiudizi e difficoltà economiche, tra conquiste sociali e prese di coscienza, il film ha stupito tutti per l’eleganza, la semplicità e la naturalezza con cui è stata raccontata l’Italia di quegli anni. Per l’eccellente interpretazione degli attori, per le scene, le ambientazioni, le musiche e i costumi.


Per molti, un coreografico tuffo nel passato - forse per non pensare ai problemi del presente - che non punta a sfogliare una leziosa antologia di ricordi, rimpianti, luoghi comuni e valli della nostalgia, magari costellata di compiacimenti estetici o possibili ricami caricaturali e che, soprattutto, evita di cadere nella trappola dell’ovvietà e nella banalità del mito e della leggenda. Pur suscitando momenti di autentica commozione.


Anzi, senza restare relegati in quel periodo storico, protagonisti, dialoghi e situazioni si rispecchiano nei nostri tempi stimolando un ulteriore interesse e una motivazione in più, in un pubblico eterogeneo, composto da adulti e anziani, ma anche da chi quell’epoca lontana di svolte, cambiamenti, contestazioni e libere scelte, la conosce solo attraverso le cronache, i libri e la Tv.

Un pregevole lavoro che, con garbo e delicatezza, celebra la vita, i sogni e la speranza e che cesella, con sensibilità e giusta misura, caratteri, personalità e sentimenti.
Non poco nell’era dei tagliatori di teste.
 (Alfredo Laurano)


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