Col distacco del
documentarista, ma con la sensibilità del bravo cineasta, Gianfranco Rosi
racconta con pudore e con rispetto la sua Lampedusa - dove ha vissuto un anno per
capire cosa vuol dire vivere su quell’isola, più vicina all’Africa (70 miglia)
che alla Sicilia (120) - e i diversi destini di chi sull’isola ci abita da
sempre e di chi ci arriva da migrante.
E mostra, quindi, in
parallelo, due diverse Lampedusa.
C’è quella di una
quotidianità scandita dall’attività dei pescatori e dalla vita di famiglia: dialoghi
scarni intervallati da lunghi silenzi, mentre sbrogliano le reti, fanno i
compiti, rammendano, cucinano, mangiano, riordinano la casa. Con la nonna che
rifà il letto e bacia una ad una le grandi statue dei santi, poste fra i
mobili.
Con le esperienze di Samuele, un ragazzino che cresce come quelli di
una volta, lontano dalla tecnologia, nel costante confronto con la natura e
l’ambiente, dove verifica le proprie capacità.
Che tira con la fionda,
parla con gli uccelli, soffre il mal di mare e ha un occhio pigro che non gli
fa vedere bene.
E risucchia rumorosamente gli spaghetti allo scoglio, divorati
con appetito.
Alcuni momenti sono
unici e indimenticabili.
L’altra, è quella del
dramma dei migranti, che arrivano in condizioni disumane, che vengono
intercettati in mare e spesso portati in salvo da una catena umana di soccorsi
che lascia ammirati e costernati.
Non racconta quella
turistica e delle cartoline, con le spiagge bianche e le acque cristalline, ma
una Lampedusa invernale, quasi antica, dai ritmi lenti e pigri come la stessa
narrazione, di campagna più che di mare, con immagini a luci basse di
straordinaria bellezza, sapientemente fotografate e montate.
Ma nemmeno sequenze drammatiche
di barconi e morti, viste tutti i giorni nei TG.
Da tutto questo nasce Fuocoammare:
una testimonianza autentica, dura, asciutta, mai retorica o esornativa, neppure
quando mostra situazioni al limite e la camera inquadra sbarchi e salvataggi, vita
e morte, senza alcun compiacimento, pur privilegiando il punto di vista di un ragazzo.
Samuele e i lampedusani
sono i testimoni, a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di
una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi.
Samuele vive la sua vita
e non incontra mai i migranti.
Lo fa, invece, il dottor
Bartolo, unico medico dell’isola, costretto dalla propria professione a
constatare i decessi, a svolgere pratiche anatomiche poco piacevoli, ma capace
di grande umanità e di non abituarsi alla macabra routine.
C’è autentico strazio
delle sue parole.
Secondo parte della
critica, l’autore si accontenta di mostrare per interminabili minuti un bambino
che gioca con la fionda e perde l’occasione di raccontare la realtà di Lampedusa.
Di rivelare al mondo le condizioni un’isola devastata dalla gestione scellerata
dei fenomeni migratori, dall’occupazione militare che subisce da decenni, dalla
situazione tragica dei pescatori che stanno scomparendo, dalla mancanza di un
ospedale, dai livelli altissimi di elettromagnetismo (e quindi alle morti per
tumore) che i moltissimi radar militari provocano. Né fa alcun riferimento ai migranti
scampati al deserto, ai trafficanti, alle polizie e alle carceri di mezza Africa,
alle guerre sante che provocano milioni di profughi.
Invece di contribuire
alla sua riscossa, Fuocammare “si
accontenta di un voyeurismo sterile e mistificatore, da dare in pasto ad una
critica ignorante e poco informata”, scrive qualcuno.
Ma per denunciare tutto
questo e per soddisfare tali attese, però, avrebbe dovuto concepire e scrivere tutto un
altro film, anzi realizzare un capillare reportage, un film d’inchiesta ad
ampio raggio.
Rosi ha fatto altro, ha
girato e rappresentato quello che aveva pensato e vissuto, non quello che
qualcuno voleva o s’aspettava: un’opera di alto profilo, che emoziona, che
suscita una naturale empatia e che, narra, con assoluta discrezione e garbo, la
semplice solidarietà e un pezzo di reale umanità.
6 ottobre 2016 (Alfredo
Laurano)
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