Speranze deluse, sogni infranti, vite spezzate da un triste
gioco del destino.
Alcuni articoli di giornale, gelosamente conservati
sul telefonino della 24enne Chinyery, definita scimmia africana dal fermano
assassino, raccontano la favola della stessa Chinyery e di Emmanuel, scappati dalla violenza di Boko
Haran, che avevano trovato l'amore in Italia.
Vivevano in Nigeria. Lei studentessa al
secondo anno di medicina, lui, Emmanuel, lavorava. Avevamo un bambino di due
anni e mezzo.
Dovevano sposarsi un mese dopo, quando una
bomba dei terroristi di Boko Haram distrusse il loro sogno, la loro casa e
ucciso il loro figlio. Morirono anche i genitori di Emmanuel.
Non avevano più niente, se non il
proprio dolore.
Avevano perso ogni cosa e scapparono
subito. Sognavano l’Italia.
Quattro mesi di viaggio, un incubo
interminabile. Arrivati in Libia, una notte furono aggrediti, derubati e
picchiati da comuni criminali, entrati in casa. Lei, incinta, non fu
risparmiata e cominciò a perdere sangue. E quelle perdite non si sono mai
fermate. Poi, in mare, durarono quattro giorni, fino al sospirato arrivo in
Sicilia e poi a Fermo.
La gravidanza non c’era più.
Ma restava la fiducia e un po’ di gioia per
essere arrivati lì, dove tutto sarebbe ricominciato, dove sarebbe stato
possibile coltivare un nuovo sogno e un progetto di vita, di famiglia e di
lavoro.
Ma questa storia triste, nonostante le
speranze e l’accoglienza, non era ancora finita.
I due giovani nigeriani non avevano ancora
pagato, per intero, il caro prezzo della sofferenza e della persecuzione.
Mancava l’epilogo che doveva trasformarla in tragedia della malvagità e della
discriminazione, ben lontano, però, dai riconosciuti luoghi del terrore.
Proprio
in Italia, a Fermo, la loro terra promessa, doveva concludersi, a soli
trentasei anni, la vita di Emmanuel, per mano di uno schifoso razzista locale,
e infrangersi quel sogno di normalità, di felicità, di possibile nuova vita e
di futuro di quella giovane coppia, fuggita dall’inferno.
(Alfredo Laurano)
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