Alla fine di un processo indiziario, senza prove certe,
oltre l’ormai famoso Dna, Massimo Bossetti è stato condannato all’ergastolo dalla
Corte d'Assise di Bergamo.
Quella della povera Yara, uccisa quasi sei anni fa, è una drammatica
vicenda che ha sconvolto l'Italia. Uno di quei casi che, insieme ad altri -
Sara, Meredhit, Chiara, Melania, Roberta Ragusa - altrettanto eclatanti e dallo
stesso coinvolgimento popolare e clamore mediatico, hanno spaccato l’opinione
pubblica nei soliti partiti di innocentisti e colpevolisti. Ognuno con le sue
rigide convinzioni, con le sue apodittiche verità.
Mi sono sempre chiesto, e continuo a farlo, come sia
possibile assumere, nei contrapposti schieramenti, certe posizioni nette,
intransigenti e fideistiche, fino ad arrivare agli insulti reciproci, alle
accuse di parte, alle campagne denigratorie sul web e anche minacce, senza
conoscere i fatti, gli atti processuali, gli umori e la realtà dei luoghi e
delle persone, a vario titolo coinvolte. Per empatia, per sensazioni a pelle,
per il diffuso orientamento di stampa e TV, per istinto e condizionamento di
massa, per percezioni estemporanee di notizie interpretate.
E’ un po’ come quando si accende il tifo per il pallone e
durante una partita volano parolacce, pugni, schiaffi e calci fra gli
spettatori, a prescindere dalle colpe e dai meriti delle squadre o
dell’arbitro.
Tutto il processo ha fatto leva sulla prova regina del Dna, terreno di scontro tra
accusa e difesa, trovato sugli slip e sui leggings di Yara. Attraverso questa
traccia si è risaliti prima a Ignoto uno, poi all'autista di autobus scomparso
nel 1999, Giuseppe Guerinoni e, infine, alla madre di Bossetti, Ester Arzuffi, che
ha sempre negato relazioni extraconiugali.
La
difesa ha ripetutamente contestato la mancata corrispondenza tra il Dna
nucleare, attribuito a Bossetti - costretto a scoprire di essere nato da una
relazione extraconiugale - e quello mitocondriale, la cui appartenenza non è
stato possibile stabilire. "Siamo
veramente convinti della sua innocenza, le 45 udienze non hanno restituito
nessuna prova certa a suo
carico".
Tutti
gli altri indizi, infatti, restano lacunosi e inspiegabili, o quanto meno
discordanti: i passaggi del furgone bianco, le minuscole fibre tessili sul corpo, compatibili con la tappezzeria dei
sedili, gli agganci alle celle telefoniche contestati dagli esperti, la mancata
violenza sessuale, accertata dall’autopsia, il fatto che la ragazza non sia
stata strangolata o accoltellata, né uccisa volontariamente, ma sia morta per
assideramento. Che, dopo una botta in testa, sia stata lasciata viva e
rivestita completamente e con le scarpe ben allacciate (perché? Quale maniaco
lo farebbe, invece di farla sparire), senza aver rilevato ulteriori tracce di
Dna di Bossetti, ma di altri sconosciuti sui guanti, sul giubotto e nei peli e
nei lembi di pelle ritrovati sotto le unghie, che non appartengono allo stesso
Bossetti.
Nessuna telecamera, peraltro, ha ripreso Yara
all’uscita dalla palestra. E, ce n’erano molte. Secondo una ricostruzione di
alcuni innocentisti, sarebbe stata uccisa, per sbaglio, per bullismo e per
disgrazia, proprio lì.
Nonostante tutto ciò, la mancanza di un movente certo, le tante
incongruenze e le incertezze, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la
sentenza di condanna, in ogni caso, credo, non potesse essere che questa,
soprattutto, dopo i due anni di carcere già scontati del muratore accusato e i
milioni di euro spesi per le indagini e i prelievi di Dna a paesi interi e
migliaia di persone, alla ricerca di “ignoto uno”.
Una
sentenza attesa, quindi, forse
"politica", per avere il colpevole di un delitto assurdo, per
soddisfare anche l’opinione pubblica e la famiglia sempre riservata e dignitosa
nel suo dolore.
La
piccola Yara deve comunque avere giustizia e chi ha spento la sua vita a soli
tredici anni deve pagare: speriamo che le motivazioni di quest’ergastolo e i
successivi gradi di giudizio ci spieghino come e perché.
2
luglio 2016 (Alfredo Laurano)
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