Strage
dopo strage, giorno dopo giorno, questo mondo precipita sempre più verso l’orrore,
scivola negli abissi della malvagità.
Bombe
nelle manifestazioni, irruzioni e sparatorie nei college, atti di terrorismo
con attentatori che si fanno esplodere tra la gente ignara, in una stazione, in
un aeroporto, in un bar, in un teatro, nella metropolitana o nella strada.
Ogni
volta, si rinnova il brivido dell’atrocità e della paura, si riaffaccia la
sorpresa e lo stupore e l’asticella dell’incredulità si deve alzare alla
successiva tacca della efferatezza.
Ma la partecipazione popolare a
questi eventi tragici, la percezione dello strazio e il coinvolgimento di chi
osserva non è sempre lo stesso, non è sempre uguale.
Nel villaggio iracheno di al Asriya, 50
chilometri a sud di Baghdad, si può morire allo stadio, dilaniati
dall'esplosione di un kamikaze, senza che il resto del mondo se ne accorga. Un
campo sportivo, un torneo di adolescenti, una strage di ragazzi.
La partita è appena terminata. Il "martire suicida",
anch’esso un ragazzino, entra nello stadio, si mischia tra la folla e si fa saltare. Ha azionato la sua cintura esplosiva mentre venivano consegnate le
coppe ai calciatori.
Muoiono 41 persone, i feriti sono 105 di cui
molti in gravi condizioni. Almeno diciassette delle vittime avevano tra i
10 e i 16 anni.
L'attentato è avvenuto venerdì, nel tardo
pomeriggio, e sembra rivolto, come altri di pochi giorni precedenti, contro le
milizie Sciite, da parte dei Sunniti.
Poteva poi mancare il vile eccidio nel giorno
della pace e della resurrezione?
“Così, percossa e attonita, la terra al
nunzio sta": giunge notizia, un po’ attutita e lontana, anche della strage talebana
di cristiani: 72 persone uccise, 320 ferite, in maggioranza donne e
bambini della minoranza cristiana, in un attacco suicida in un parco pubblico
di Lahore, nel Pakistan centrale, gremito di famiglie che celebravano la Pasqua.
Fossero
avvenute in Europa, queste due recenti stragi, s'indignerebbe e piangerebbe il
mondo, come è stato per Parigi, per Madrid, per Londra, per Bruxelles. Fra
larghissimi tappeti di fiori, di candele e di lumini, di biglietti, di gessetti
colorati e di preghiere collettive nelle piazze. Con il sentito e rituale cordoglio
delle istituzioni e dei politici, con i Tg e gli speciali non stop, con le notizie
e i continui aggiornamenti, con i collegamenti in diretta e centinaia di
inviati e quotidiani dibattiti nei talk.
Niente
di tutto questo è accaduto per le due tragedie, irachena e pakistana, appena
raccontate dai media per dovere di cronaca: non hanno lo stesso peso
informativo o analoga importanza, anche se tra le più crudeli e disumane.
L'emozione
personale e collettiva che suscita un massacro, un naufragio di migranti o un
attentato non è mai la stessa: la perdita della vita di un familiare, di un
amico, di un concittadino o di un italiano - non a caso, il primo dato che
viene fornito dalle agenzie è proprio la nazionalità delle vittime - non è mai uguale a quella di qualcuno che vive
in un Paese che poco conosciamo o che è molto distante per cultura, tradizione e
geografia.
Di
molti posti della terra sappiamo, a malapena, poco più che il nome e, spesso, nemmeno
l’ubicazione sulla mappa: dunque, la reazione è innegabilmente più blanda e relativa
e il dispiacere più o meno intenso e articolato.
Così,
come la commozione è più forte se si tratta di un bambino, di un anziano, di un
essere più debole o di un’etnia fragile e indifesa.
E’
come se il significato della vita e la dimensione del dolore, per ognuno o per
alcuni, fossero variabili o avessero una diversa quotazione nella scala dei valori
o dipendessero da parametri convenzionali e spazio-temporali.
Come
se il pianto, la sofferenza e la disperazione di una madre siriana, israeliana
o palestinese fossero sentimenti meno veri, meno autentici e profondi di quelli
di una qualsiasi madre belga, francese o, comunque, occidentale.
Ma
come il sangue, anche il dolore non ha colore o nazionalità.
30
marzo 2016 (Alfredo Laurano)
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