Non
riusciamo e non facciamo in tempo a metabolizzare l’orrore, il dolore o la paura
di un attentato, di un feroce omicidio o di una incredibile disgrazia, che già
siamo costretti a partecipare emotivamente - se non siamo coinvolti fisicamente
- a un nuovo fatto di sangue che sconvolge la nostra vita, la quotidianità, le
presunte certezze, le abitudini di quella felice e, spesso, noiosa condizione
che chiamiamo, per contrapposizione, normalità.
Già l’attentato
di Charlie Hebdo aveva scavato a fondo nella coscienza collettiva di intere comunità
di cittadini e ridimensionato ogni illusorio baluardo di sicurezza, che sono
arrivate le stragi nei musei e nelle spiagge della Tunisia, quelle nei bar e
del Bataclan di Parigi, quelle in Turchia e nello Yemen.
Siamo
stati sopraffatti dall’indignazione per altre atrocità commesse dalla belva
umana o per un delitto per gioco e senza senso o dallo stupore di una terribile
sciagura che uccide per caso tredici giovanissime fanciulle e i loro progetti
di studio, di vita e di futuro.
Ci stiamo
piano, piano, abituando al male, al disastro, alla tragedia, all’ineluttabile
destino del terrore.
Aumenta
progressivamente l’incertezza e il senso di precarietà cresce, ogni volta, a
dismisura, fino a stravolgere ogni residuale tentativo di equilibrio fisico e
mentale.
Prevale
allora la sensazione di impotenza, mista ad angoscia, che incalza e scalza quella
timida voglia di ottimismo della volontà, che con grande sforzo, ci imponiamo e
che ci dà conforto.
E così, in
questo forzoso cammino verso l’assuefazione all’empia fatalità, perfino i gravi
atti di terrorismo, di stragi e devastazioni diventano un male fisiologico,
qualcosa con cui convivere, qualcosa che non può essere che così. Un fenomeno
che rientra nei limiti della norma, organico e reale.
E puntualmente accade e riaccade, si ripropone come un ciclo ricorrente,
ma disordinato e irregolare, al di là di ogni possibile previsione.
Intelligence, Apparati e Servizi risultano inefficaci e impreparati, vengono
sconfitti ed umiliati, come tutte le buone e le migliori intenzioni di chiunque
vigili sulla salute pubblica.
Anche
Bruxelles, la città da tempo più blindata e militarizzata del mondo, è stata
colpita nel vivo, con ordigni e kamikaze all’aeroporto e in centralissime
stazioni della metro.
Un’ennesima
strage. Non certamente l’ultima. Altre vittime di esaltati che disprezzano la
vita propria e di chiunque, altro sangue da versare, da piangere, ma da lavare
subito, per lasciare pulito e pronto il prossimo palcoscenico dell’orrore. Ovunque
sia, ovunque e quando, casualmente, il male sarà ancora in onda.
Se ci
riescono a Bruxelles, teatro, da mesi, di una capillare caccia all’uomo,
figuriamoci cosa possono fare altrove. Chi non lo pensa?
Sta qui la grande paura di queste ore. Se il 13 novembre
avevamo tutti provato orrore e pietà per la Parigi insanguinata, oggi, in
questo 22 marzo, mentre si contano i morti di Bruxelles, proviamo soprattutto altra
paura. Una paura che l’opinione pubblica sente salire sempre diversa e sempre
più crescente e che investe istituzioni, famiglie e comuni cittadini.
22 marzo 2016 (Alfredo Laurano)
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