martedì 13 gennaio 2015

NARCISI DIGITALI



Entrate in un qualsiasi ristorante, di una qualsiasi città, a una qualsiasi ora e osservate la gente seduta ai tavoli: prima di cominciare un pasto, durante e dopo, con gli amari della casa e l’orrendo limoncello.
Sembra tutto normale, come sempre, come una volta: qualcuno sfoglia il menù, prova a conversare, a scambiare due parole, a rispondere e magari… pure ad ascoltare!
Ma dura poco.
Sono solo i preliminari di un rito collettivo, che si ripete, almeno cinque volte al giorno, come la preghiera dei musulmani. Del nuovo obbligo sociale, di quell’ adattamento evolutivo che il povero Darwin non poteva prevedere.

Una ventina di anni fa, per educazione, per decenza e per buon gusto, ancora si evitava di rispondere ad alta voce, davanti a tutti, quando squillava il telefonino: ci si appartava, chiedendo scusa. Anche, con un certo imbarazzo.
A tavola, si spegneva il cellulare, come in chiesa, come a teatro e nei concerti. Per riservatezza e come forma di riguardo nei confronti degli altri.
Da tempo, non è più così.

Accanto al piatto e alle posate, come la colt dei cowboy del vecchio West, giace, vibra, “vive e lotta insieme” a noi l’oggetto della nostra collettiva perversione, l’attrezzo tecnologico che più ha trasformato la vita quotidiana, il termometro di quella monolitica fede digitale che tutti arruola ed accultura: lo smartphone, che ogni sette, otto giorni si rinnova, si assottiglia e offre qualche pixel o qualche applicazione in più.
E’ il simbolo di una tremenda, inguaribile dipendenza - che inizia assai prima della scuola elementare - che nessuna comunità, né lo sciamano, può curare o contrastare.
Lo strumento universale che condiziona scelte, pensieri e comportamenti è sempre lì, vicino a noi, a portata di mano e di occhi, per essere coccolato e delicatamente accarezzato, anche tra un boccone ed un respiro. Come una protesi più importante di una mano, come la transizionale coperta di Linus che supplisce a ogni nostra carenza affettiva, che si attiva col magico touchscreen.

Sempre connessi, sempre on line, sempre on air nell’era del nuovo enciclopedismo di Voltaire e Diderot del terzo millennio.
“Ci illumina d’immenso” quel display, ci consiglia e ci conforta ogni momento, appaga il nostro digitale narcisismo.

In una mano la forchetta, nell’altra l’ossessione che spinge a controllare, ogni tre, quattro minuti, se è arrivata una chiamata, un’email o un messaggio di Whatsapp o se qualche amico ha postato l’imperdibile foto del suo cane che sbadiglia o del criceto innamorato. 
Inconsapevolmente posseduti da un’ansia cognitiva, invece di guardare chi ci sta di fronte, scarichiamo la posta, navighiamo su Facebook, scopriamo un sito o una notizia, fotografiamo i piatti, i luoghi e ogni stronzata.

E di notte, quella “irrinunciabile ossessione” dorme accanto a noi sul comodino e si rinutre di energia vitale.
Ma lì, su quella tavola imbandita, lasciamo i pensieri e le emozioni che l’iPhone ci ha ormai rubato.                                                     
12 gennaio 2015                (Alfredo Laurano)

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