Sembra tutto normale, come sempre, come una volta: qualcuno sfoglia
il menù, prova a conversare, a scambiare due parole, a rispondere e magari…
pure ad ascoltare!
Ma dura poco.
Sono solo i preliminari di un rito collettivo, che si ripete, almeno
cinque volte al giorno, come la preghiera dei musulmani. Del nuovo obbligo
sociale, di quell’ adattamento evolutivo che il povero Darwin non poteva
prevedere.
Una ventina di anni fa, per educazione, per decenza e per buon
gusto, ancora si evitava di rispondere ad alta voce, davanti a tutti, quando
squillava il telefonino: ci si appartava, chiedendo scusa. Anche, con un certo
imbarazzo.
A tavola, si spegneva il cellulare, come in chiesa, come a teatro e
nei concerti. Per riservatezza e come forma di riguardo nei confronti degli
altri.
Da tempo, non è più così.
Accanto al piatto e alle posate, come la colt dei cowboy del vecchio
West, giace, vibra, “vive e lotta insieme” a noi l’oggetto della nostra
collettiva perversione, l’attrezzo tecnologico che più ha trasformato la vita
quotidiana, il termometro di quella monolitica fede digitale che tutti arruola
ed accultura: lo smartphone, che ogni sette, otto giorni si rinnova, si
assottiglia e offre qualche pixel o qualche applicazione in più.
E’ il simbolo di una tremenda, inguaribile dipendenza - che inizia
assai prima della scuola elementare - che nessuna comunità, né lo sciamano, può
curare o contrastare.
Lo strumento universale che condiziona scelte, pensieri e
comportamenti è sempre lì, vicino a noi, a portata di mano e di occhi, per
essere coccolato e delicatamente accarezzato, anche tra un boccone ed un
respiro. Come una protesi più importante di una mano, come la transizionale
coperta di Linus che supplisce a ogni nostra carenza affettiva, che si attiva
col magico touchscreen.
Sempre connessi, sempre on line, sempre on air nell’era del nuovo enciclopedismo
di Voltaire e Diderot del terzo millennio.
“Ci illumina d’immenso” quel display, ci consiglia e ci conforta
ogni momento, appaga il nostro digitale narcisismo.
In una mano la forchetta, nell’altra l’ossessione che spinge a
controllare, ogni tre, quattro minuti, se è arrivata una chiamata, un’email o
un messaggio di Whatsapp o se qualche amico ha postato l’imperdibile foto del
suo cane che sbadiglia o del criceto innamorato.
Inconsapevolmente posseduti da un’ansia cognitiva, invece di guardare chi ci sta di fronte, scarichiamo la posta, navighiamo su Facebook, scopriamo un sito o una notizia, fotografiamo i piatti, i luoghi e ogni stronzata.
Inconsapevolmente posseduti da un’ansia cognitiva, invece di guardare chi ci sta di fronte, scarichiamo la posta, navighiamo su Facebook, scopriamo un sito o una notizia, fotografiamo i piatti, i luoghi e ogni stronzata.
E di notte, quella “irrinunciabile ossessione” dorme accanto a noi
sul comodino e si rinutre di energia vitale.
Ma lì, su quella tavola imbandita, lasciamo i pensieri e le emozioni
che l’iPhone ci ha ormai rubato.
12
gennaio 2015 (Alfredo Laurano)
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