giovedì 12 marzo 2015

SE BOCCACCIO POTESSE PARLARE...

Mentre scorrevano i titoli di coda di “Maraviglioso Boccaccio”, mi sorgeva spontanea una domanda: ma chi sono o chi credono di essere quei tanti illuminati critici che lo hanno bistrattato, strapazzato e condannato? 
Lo fanno per deformazione di mestiere, in ossequio alla logica del bastian contrario, per darsi un tono da severo intellettuale o per distinguersi nella scalata alla fama di cattivo, ben più utile e appagante di quella del buon critico, munifico e assai prodigo, come ad esempio il generosissimo Mollica?
O per un malinteso equivoco di base che individua nel concetto di critica, non la facoltà di distinguere, in buona fede, il vero dal falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo, ma uno scontato e sottinteso pregiudizio, per il quale si debbano firmare, solo, o prevalentemente, pareri antitetici e negativi?

Troppo spesso, e troppo facilmente, si stronca un’opera, piuttosto che elogiarla. Perché condannare è meglio che assolvere: libera la coscienza da qualche sciocco residuo di rispetto e correttezza ed esorcizza la paura di passare per buonista.
E ciò vale in ogni campo artistico e in ogni tempo della Storia (hanno stroncato e fischiato pure Mozart, Verdi e Rossini e tanti altri).
 Esteticamente ineccepibile, qualcuno lo ha definito un bel film inutile.
Per alcuni, non ha un’identità precisa e un equilibrio. O c’è un sovraccarico di teatralità. Per altri, la finzione del film è troppo evidente e molte scene appaiono superflue. C’è chi dice: lo scempio è compiuto, il film non rende il senso del lavoro di Boccaccio e ne altera i contenuti. Altri ancora, lo hanno demolito.

C’è molto sentimento nel Boccaccio dei fratelli Taviani che raccontano la peste di Firenze del 1348, dove malati e maiali si aggirano liberi per le vie e le fosse comuni si riempiono di morti, e pure di vivi che hanno perso tutto, anche l’umanità, e la scelta di una decina di giovani della buona borghesia di rifugiarsi in una casa in campagna per sfuggire al tempo del male e della morte. Lì, occuperanno i giorni, con stabilite regole di pane e castità, raccontando una novella a testa per passar le ore.
Scene drammatiche si contrappongono a quelle bucoliche e serene dei prati e degli scorci collinari: tutte sontuose e luminose come quadri rinascimentali.
Non c’è la carnalità ed erotismo, ma del trasgressivo Decameron di Pasolini, quello dei Taviani ricorda e condivide la sensibilità e l’attenzione all’amore, nei suoi vari aspetti, come motore del mondo, e ai sentimenti come temi centrali della vita, anche se nell’opera pasoliniana del 1971 prevale forse una maggiore disponibilità ad esaltare i piaceri, i dolori e i momenti decisivi della vita, in un crudo realismo che ancora oltraggiava, in quegli anni, il comune senso del pudore.
Non è l’infinito e divino “amor che move il sole e l'altre stelle”, come lo intendeva Dante, ma l'attrazione naturale tra esseri umani che per il laico Boccaccio – ma anche per Pasolini ed i Taviani - è una forza insopprimibile, motivo di diletto, ma anche di dolore, che spesso si scontra con pregiudizi culturali e di costume.

Ad eccezione della comica novella di Calandrino, le altre quattro storie ruotano tutte intorno all’esaltazione di quel nobile sentimento: a volte impossibile, a volte premiato, a volte sacrificato.

Grazie alle accurate riprese, alla bella fotografia, alle ambientazioni e ai giusti movimenti di macchina, le atmosfere sono sempre poetiche e struggenti. Come cornice, le stagioni dell’incantevole campagna toscana, senza tempo, sul cui sfondo si stagliano gli sgargianti abiti dei protagonisti.
Pennellate che dipingono un affresco prezioso e misurato realizzato da due giovani ultraottantenni che conservano lo spirito e la genialità filmica di sempre. Che sanno riflettere e guardare la Storia e l’attualità con lungimiranza.
La peste che apre il film è un’efficace metafora di tutto quello che oggi ci sconvolge e ci rende infelici, del male e delle sue tante incarnazioni che non siamo in grado di affrontare e di sconfiggere. "Di peste, ce n’è tanta in giro per il mondo, ed è il punto di partenza del film perché rappresenta il male dei nostri tempi” – dicono i registi.
Tocca ai giovani, quindi, che sono le vittime principali di questa epidemia, rivolgersi all'arte, in questo caso quella letteraria - per combattere la morte, l'odio e la paura, con il potere della fantasia e dell'amore. Un po’ come si pensava nel ’68.

E’ un'opera che affascina e al tempo stesso fa discutere, ma è comunque un bel film questo Maraviglioso Boccaccio, dove si celebra il senso del bello: delle immagini, dei particolari, del paesaggio, della ricostruzione storica, dei volti splendidi delle attrici valorizzati dalle luci, fino alle magiche musiche di Rossini, Puccini e Verdi che si sposano in modo perfetto alle sequenze, nella loro atemporalità.
Qualcuno le ha ritenute sbagliate e inadeguate. Certo, avrebbero potuto usare il rock, il metal o sonorità elettroniche e spettrali. O il canto gregoriano.

Questo, comunque la pensiate, è il Boccaccio di Paolo e Vittorio Taviani: grande capacità evocativa e consueta forza narrativa che immagina un mondo lontano e misterioso e lo traduce in film, poetico, triste e seducente, con un disperato richiamo alla giovinezza, e dove la fitta pioggia finale, purificatrice e catartica, annuncia la speranza.
Anche se qualche stolto ha parlato, con delirante insensatezza, di omicidio di Boccaccio.
12 marzo 2015     (Alfredo Laurano)






Nessun commento:

Posta un commento