Caro Fabio, mi sorprendi: liquidare il
sessantotto con un semplice intreccio di slogan e battute non è da te, non ti
fa onore.
Non è stato una banale campagna di
marketing per vendere idee e prodotti commerciali, sbagliata e fallita dai
creativi, ma un processo generazionale di presa di coscienza, di scelta, di
indipendenza e autodeterminazione.
"SESSANTOTTO VAFFANCULO
Portavano il Manifesto in tasca e l’eskimo.
Volevano la rivoluzione e facevano l occhiolino alle Brigate Rosse.
Oggi il leader Capanna difende i vitalizi,
dirigono banche, agenzie pubblicitarie, giornali e telegiornali.
Hanno votato 5 stelle? Beh ridotti cosi
che altro potrebbero fare. Ma adesso viene il bello. Tra bugie e tradimenti si
accorgono che ancora una volta hanno fatto una cazzata.
Restano la panchina e i giardinetti... e
qualche vecchio ingiallito giornale tolto dalla scatola delle scarpe per
continuare a dire "Visto? Avevamo ragione"
Se permetti, non è proprio così. Non è
stato proprio una cazzata, né un fenomeno di trasgressiva goliardia, né può
essere visto oggi come il riconoscimento morale di una colpa solo studentesca.
Intanto, non era solo eskimo e
contestazione a prescindere e nessuno portava in tasca il Manifesto, nato come
anche Lotta Continua nel 1969 e diventato quotidiano soltanto nel 1971
(conservo ancora il primo numero). Né si fiancheggiavano le Brigate Rosse:
vennero più tardi “i compagni che sbagliano” e i predicatori della lotta
armata. La strage di piazza Fontana a Milano del 1969 fu di chiara matrice
fascista.
Il sessantotto è stato un grande movimento
di massa internazionale, sostenuto da un ideale politico collettivo che voleva
il cambiamento, che aspirava a superare i valori stagnanti dell’individualismo
borghese, il conformismo sociale e il dilagante consumismo; che proponeva una
rivoluzione capillare, capace di trasformare la società dei privilegi - non
ancora globale, ma globalizzata nelle ingiustizie, nella distribuzione della
ricchezza, nelle disparità e nelle disuguaglianze -, di cambiare la condizione
giovanile e di cancellare le tante forme di discriminazione.
Che sperava di rimuovere l’immobilismo
dello “statu quo ante”, politico ed economico di parte, e rendere protagoniste
non le élite, ma le masse e le categorie, fino ad allora emarginate dalla
storia.
Che mirava a democratizzare le istituzioni
chiuse e reazionarie, anche accademiche, e riaffermare i diritti dei
lavoratori, degli studenti e delle donne, la scuola di massa, le rappresentanze
di fabbrica (lo statuto dei lavoratori, nel 1970, fu una sua logica
conseguenza).
Anelava a un mondo libero e giusto,
eticamente tollerabile, ancorché modernamente ispirato alle utopie di Platone e
Tommaso Moro.
E’ un pezzo di storia, di un diffusissimo
sentire comune e di un preciso contesto politico-sociale di quel tempo, che non
si può riassumere come un fattarello di cronaca provinciale o raccontare in un
post frettoloso, critico e sprezzante sui social. Anche la panchina e i
giardinetti, a una certa età, hanno la propria dignità.
Né conta ciò che alcuni protagonisti e
leader italiani (Sofri, Capanna, Boato, Deaglio, Liguori, Mughini, Manconi, Gad
Lerner, Toni Negri, Cacciari, Pancho Pardi e Paolo Mieli) siano col tempo
diventati o cosa o quanto abbiano rinnegato o tradito: contano le idee, i
valori e le battaglie che il sessantotto ha rappresentato per creare un mondo
migliore. (A. La.)
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