Un ennesimo corteo di migliaia di
donne, da Piazza della Repubblica ha sfilato ieri a Roma, fino a piazza di
Porta San Giovanni, per dire, ancora una volta, basta alla violenza sulle donne.
Una marcia ad alta voce in una data simbolica, perché oggi, 25 novembre, si
celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, voluta dalle
Nazioni Unite.
Queste manifestazioni, che si
ripetono con frequenza in occasioni varie, non hanno molto senso dal punto di
vista dei risultati, degli effetti e delle possibili conquiste. Non cambiano granché
lo stato delle cose.
Ma lo hanno, tuttavia, per ricordare
la drammatica normalità della condizione femminile, per tener viva l’attenzione
popolare, degli uomini, delle istituzioni - troppo spesso, assenti, insensibili
o latitanti - e delle stesse donne, in molti casi, vittime designate e
rassegnate di una società patriarcale e sessista, che ancora non è in grado di rispettarle,
proteggerle, tutelarle, far rispettare i loro diritti, le loro pari opportunità.
Lo hanno, soprattutto, per far
conoscere ai distratti e agli indifferenti, gli spaventosi numeri di questa
tragedia senza fine, a base di stupri, sfregi, abusi, umiliazioni, vendette, femminicidi,
malvagità d’ogni tipo.
Centosei palloncini rosa sono stati
alzati in cielo per ricordare le donne morte solo quest’anno, a causa della
violenze subite da uomini, repressi, gelosi e possessivi.
Ogni 72 ore, una donna viene uccisa,
soprattutto da mariti, compagni e fidanzati.
Tremila donne sono morte dal 2000
per mano, quasi sempre, di ardenti compagni o familiari assassini, che “le amavano
troppo”.
Sono numeri alti, crudi, tremendi,
ma che non riescono a dare il senso della tragedia umana che ognuna di quelle
morti, ognuno di quegli abusi porta con sé.
“Stiamo
uccidendo, violentando, un'intera generazione di donne, ha detto Maurizio
Martina, e la questione ha una radice culturale antica, difficile da estirpare.
Dalla stessa radice nascono erbe infestanti come le differenze salariali tra
uomini e donne, la preclusione di carriera al femminile, l'abbandono del lavoro
dopo la maternità”.
In breve, è la disuguaglianza di
genere, accettata troppo spesso dalle stesse donne e tollerata dal sistema.
Il grido di piazza di oggi è un
segnale da coltivare intensamente: pari diritti, per non accettare più
l'offesa. Per non sopportare più la brutalità, la rabbia e la furia del maschio
primitivo e prepotente.
Per sconfiggere e cancellare una
mentalità, che confonde l’amore con il possesso, di cui la violenza è la
conclusione più estrema.
Perché “Non è normale che tutto
questo sia normale”.
(Alfredo Laurano)
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