Quando al mattino, anche molto presto, apro
la finestra sul mondo, accendendo il computer, non so mai quello che vedrò all’orizzonte,
o da vicino, quale sarà, cioè, la notizia in prima pagina. E ne ho un certo
timore, oltre che curiosità.
Da una parte, la solita politica, alla
quale, bene o male, siamo assuefatti, dall’altra, cronaca, fatti sociali,
vicende umane e tragedie.
Oggi, tutto il mondo ha preso atto che se n’è
andato Umberto Eco.
Così, senza preavviso, a ottantaquattro
anni, ieri sera a casa sua.
E quello stesso mondo, che stamattina ha
aperto quella mia stessa finestra, si è reso conto di aver perso uno dei suoi
più importanti uomini di cultura contemporanei. E ci è rimasto male, come me.
Semiologo, saggista, docente (libido
docendi), filosofo e scrittore.
"Il nome della rosa", il suo
primo romanzo capolavoro, uscito nel 1980 e diventato un best-seller, è stato
tradotto in 47 lingue e ha venduto trenta milioni di copie.
Sulla stessa scia i suoi romanzi
successivi, da "Il pendolo di Foucault" a "Numero Zero",
tutti hanno raggiunto il successo internazionale.
Non avrei mai voluto aprire, oggi, quella
finestra, ma ormai l’ho fatto e voglio salutarlo con le parole di Roberto
Saviano che lo ha voluto ricordare, citando l'ultima frase de “Il Nome della
Rosa”: “stat rosa pristina nomine, nomina
nuda tenemus" (la rosa che era, ora esiste solo nel nome, noi possediamo
solo nudi nomi), un verso del monaco benedettino del XII secolo, Bernardo
Cluniacense.
Addio Umberto, la tua Eco non si spegnerà.
20
febbraio 2016 (Alfredo Laurano)
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