Lo storico Carnevale di Ivrea si celebra
ogni anno per ricordare un episodio di affrancamento dalla tirannide che si fa
risalire al medioevo, ispirato alla vicenda di una leggiadra mugnaia
giustiziera di un tirannico feudatario.
La leggenda vuole che, intorno all’anno
1200, Violetta, figlia di un mugnaio e promessa sposa a Toniotto, non volendo
sottostare allo jus primae noctis, imposto a tutte le spose dal tiranno che
affamava la città, salì al castello e decapitò il Barone. Ciò accese la rivolta
popolare che si concluse con la distruzione del maniero e con la l’istituzione
del libero Comune.
La tipica Battaglia delle Arance rievoca
questa ribellione: il popolo, rappresentato dalle nove squadre degli aranceri a
piedi, combatte a colpi di arance contro le armate del Feudatario,
rappresentate dai tiratori sui carri trainati da cavalli - a Ivrea non ci sono
carri allegorici come in altri famosi carnevali - che indossano protezioni e
maschere che ricordano le antiche armature.
Il lancio delle arance affonda le sue
radici intorno alla metà dell’Ottocento. Prima, erano i fagioli i protagonisti
della battaglia.
Si narra infatti che due volte all’anno il
feudatario donasse una pignatta di fagioli alle famiglie povere e queste, per
disprezzo, gettassero i fagioli per le strade. Gli stessi legumi erano anche
utilizzati in tempo di carnevale, come proiettili da sparare addosso agli
avversari.
Ancora oggi, di tarocchi, di insulti
classici e di quelli più fantasiosi, ne volano di tutti i colori tra gli
aranceri a terra e quelli sul carro. Ma è pura goliardia.
Per
gli eporediesi (nome degli abitanti che deriva dall’antico nome romano della
città di Ivrea, Eporedia) il carnevale è un’autentica malattia: è atteso tutto
l’anno e alla fine di un’edizione si pensa immediatamente alla successiva. Come
fanno esattamente i senesi per il Palio.
Sono oltre 6000 i quintali di arance
lanciate ogni anno. Coltivati da aziende di Calabria e Sicilia, sono agrumi
destinati al macero e non potrebbero mai arrivare sulle tavole. Quindi nessuno
gridi allo spreco, dicono gli organizzatori.
Attenzione, però, non si dice guerra e
neanche lotta: solo, rigorosamente, Battaglia.
Gli eporediesi ci tengono!
Si combatte tre giorni di fila, dalla
domenica al martedì. A fine giornata, i “bisognini” dei tanti cavalli e la poltiglia
di arancia diventano tutt’uno, sprigionando un odore pungente, che ristagna sul
pavé, anche giorni dopo la battaglia. Per i protagonisti è un autentico profumo.
Il Carnevale è la sovversione della quotidianità.
Durante i tre giorni di battaglia, Ivrea
impazzisce, letteralmente.
Normali padri di famiglia, comuni cittadini e
distinti professionisti urlano sotto il carro, magari insieme ai figli, e si
sfregiano a colpi di arance, sfogando a volte anche rabbia e delusioni.
Arance,
quindi, non come apporto di vitamina C, ma come efficace tecnica antistress.
La forza della tradizione supera comunque
la forza della ragione e del buon senso.
Anche quest’anno, la pioggia e le misure
antiterrorismo non hanno scoraggiato curiosi e appassionati a partecipare alla
irrinunciabile battaglia.
Venduti settemila tagliandi al prezzo di
otto euro, per accedere alle piazze dell’agone, ma novanta è la quota di
iscrizione media che paga un arancere a terra per tre giorni di battaglia. Per
tirare sul carro si può arrivare fino a 300 euro. Al giorno.
Circa 100.000 gli spettatori, 200 figuranti
in costumi d’epoca e 70 cavalli nel corteo storico, 4.500 gli aranceri, 54 i
carri da getto, trainati da altri 100 cavalli. Un milione e mezzo, il valore
generato in attività commerciali nelle giornate di svolgimento della
manifestazione.
In compenso, domenica, solo una settantina
i feriti, per colpi di agrumi, e una trentina le persone ubriache di vin brûlé
che hanno fatto ricorso alle cure dei sanitari: circa la metà rispetto alle
passate edizioni.
Occhi neri, ecchimosi ed ematomi vari sono
però come una medaglia, un riconoscimento ufficiale, e misurano il valore del
guerriero eporediese.
9 febbraio 2016 (Alfredo Laurano)
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