SE ATENE BRUCIA, ANCHE ROMA S’ACCENDE 19 ottobre 2011
Non l’abbiamo creata noi! In mille luoghi della terra, in quasi 90 paesi, si è manifestato il 15
ottobre contro i responsabili della crisi globale. Che è finanziaria, politica,
economica, alimentare, ambientale, di civiltà e di cultura.
Dopo decenni di dissennato furore liberista, di immorale speculazione in un
sistema impostato e cresciuto su sfruttamento, disuguaglianze e latente
discriminazione, sulla continua sottrazione o manipolazione della verità e sul
suadente indottrinamento capitalistico ammantato di lustrini e di promesse -
opulenza e ricchezza per tutti, miraggi e splendori da giardino dell’Eden - è
nata a livello mondiale una voce collettiva che racconta un’altra verità:
quel sistema è crollato, è imploso su se stesso, ha sconfessato i suoi falsi
miti, le sue certezze assolute, la sicurezza del benessere. Nulla è e
potrà più essere scontato e garantito.
Recessione in tutto l’occidente, disoccupazione galoppante, precariato e
lavoro sottopagato, la povertà che cresce a dismisura, le banche che perdono
profitti e appeal, rivolte in Grecia, Spagna, Inghilterra e Stati Uniti.
Milioni di persone che protestano nel mondo...e nel nostro Belpaese che
succede?
Succede che poche centinaia di teppisti - lasciati agire
indisturbati dalle sottili strategie delle forze di polizia
impegnate a proteggere i palazzi del potere - possano operare da anni, sotto
la sconfinata e ospitale bandiera della stupidità, a favore dello status
quo, commettendo le peggiori efferatezze senza che nessuno li fermi, li
indaghi e li prevenga, e riescano a sabotare e far fallire una grande
manifestazione di massa e a demolirne le forti motivazioni.
Riducendo il tutto - agli occhi dei tanti spettatori non paganti,
seduti sulle comode poltrone dell’indifferenza e del pregiudizio -
solo a una mera questione di ordine pubblico.
Una ghiotta occasione da prendere al volo per far tacere chi urla il
disagio e le proprie ragioni, per scoraggiare la voglia di scendere in piazza,
per reprimere il dissenso e la contestazione popolare, per invocare leggi
repressive alla “chi cojo cojo”, per spingere alla “necessaria”
normalizzazione.
Rivoluzione non è certo sfondare qualche vetrina di banche o sfasciare
qualche negozietto a conduzione familiare o bruciare qualche macchina, magari vecchia e pagata in comode rate mensili. O
lanciare estintori, molotov e sampietrini come massimo e coraggioso atto
rivoluzionario contro altri poveracci in uniforme, a mille euro al mese,
rischio vita compreso.
Forse dovremmo ignorare queste nobili imprese che non servono alla causa,
ma solo a far vendere foto, giornali e talk show televisivi (con ospiti
stantii, di riciclo costante e risse verbali pre-organizzate) e preoccuparci
esclusivamente del significato e delle gravi conseguenze sociali e psicologiche
che questi atti di premeditata e gratuita brutalità determinano nella
pubblica opinione, alimentando il disgusto e la sempre più crescente distanza
dalla politica, il conseguente qualunquismo, la scontata condanna della
violenza e soprattutto l'espropriazione delle sacrosante ragioni della
rabbia e della rivolta, portate in piazza da due/trecentomila persone,
pacificamente.
Da giorni, infatti, non si parla che di guerriglia urbana, di saccheggio
della città, di danni e lacrimogeni, di devastazioni, di statue di madonne
distrutte: atto sacrilego per i credenti, ma intollerabile anche per
chi non lo è. Ogni laico, in quanto tale, non può che rifiutare
quel gesto e quella furia iconoclasta, che ripropone la logica della
profanazione razzista e nazista, prendendo di mira i simboli religiosi
degli "altri", che siano ebrei o musulmani o in questo caso
cattolici.
Grazie a queste frange illuminate, votate alla battaglie senza scopo e
senza senso, non si discute più dei temi veri dell’indignazione generale
che, fino a poche ore dall'inizio della manifestazione, tantissimi
condividevano, semplicemente come cittadini ingannati, delusi,
esasperati e soprattutto incazzati. Senza essere per questo black
bloc, anarco-insurrezionalisti, centri sociali, ultras, cani sciolti o figli di
papà che giocano alla “guerra”.
Di fronte a questo squallido e ignobile teatrino delle parti, degli
equivoci, degli abusi e strategie, di violenze e prepotenze - già
merce-spettacolo al servizio del mercato dei network, dei media e del potere -
che cancella, mistifica, o copre e rimanda le colpe gravi e le responsabilità
delle banche e della allegra finanza capitalistica nella crisi economica
mondiale, non possiamo non riproporci la solita tragica domanda, alla ricerca
del movente e del possibile colpevole: cui prodest?
19 ottobre
2011
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