Anche
Charles Manson, un altro genio del male, condannato a sette ergastoli, se n’è
andato nell’indifferenza generale. Del mondo, della gente, delle tante persone
che, come il sottoscritto, quel il 9 agosto 1969, restarono sconvolte e
inorridite da tanta ferocia. Ricordo ancora quelle sensazioni e quel senso di
incredulità di quei momenti.
All’epoca,
non eravamo ancora abituati, anche per la giovane età, a tanta malvagità.
Sulla
stessa scia delle canzoni dei Beatles e dei Beach Boys che accendevano le
nostre passioni musicali, un guru sanguinario, uno psicopatico demoniaco perso
nel delirio, di grande carisma e con gli occhi da pazzo, capace di attirare intorno
a sé uomini e donne di tutti i tipi - fricchettoni, incoscienti, esaltati
intellettuali, ragazzine dello sballo, attori, musicisti falliti come lui - era
diventato una icona popolare, una figura paterna e di riferimento, il mentore
di una folle “famiglia” che amava l’ Lsd e la violenza. Che credeva in
Scientology e in Satana e che odiava i neri. Che uccidevano in nome di una
cultura rock nel confronto delle razze e punitiva.
Per
ripulire il mondo e ogni comunità, un gruppo di giovani armati, membri della
Charles Manson's Family, entrarono a Cielo Drive di Los Angeles, nella casa di
Sharon Tate, 26 anni, modella, attrice e moglie di Roman Polanski, incinta all’ottavo
mese, e la ammazzarono selvaggiamente a coltellate sulla pancia, insieme agli
altri quattro amici che si trovavano in quella villa del peccato.
Con
uno straccio intriso del suo sangue, una delle assassine scrisse sulla porta da
cui avevano fatto irruzione “Pig”, maiale.
Intanto,
dall’altra parte del Paese, sulla costa Est, quattrocentomila (per alcuni un
milione) giovani alternativi si radunavano per celebrare la cultura hippie, nei
tre giorni di pace, amore e musica del festival di Woodstock.
Manson,
in nome di quella stessa cultura, preferiva uccidere.
(Alfredo Laurano)
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