lunedì 13 novembre 2017

IL FRUTTO PROIBITO

Da quella che tentò Eva a quella che cadde sulla testa di Newton; da quella che avvelenò Biancaneve a quella sulla testa del figlio di Guglielmo Tell; da quella “grande” di New York a quella dell’etichetta musicale dei Beatles e dei computer della Macintosh.
C’era una volta una mela.
Una mela come frutto, anzi, come regina della frutta e come simbolo multiculturale e controverso di fertilità, sapienza, ma anche del peccato originale, nonché del Paradiso, attraverso l’albero della conoscenza.
O come quotidiano nutrimento, come ingrediente di migliaia di preparazioni alimentari, a cominciare da quella grattugiata, di una volta, per neonati, alle infinite frittelle e torte di mele, fino allo straordinario strudel di mia madre.

Mela, narrata e tramandata, come metafora dai significati più profondi, fra mito e religione, fra cibo e letteratura. Espressione di antica saggezza clinica popolare, perché, come tutti sanno, una mela al giorno toglie il medico di torno.
Perché lo toglie? Perché - spiega la medicina ufficiale - contiene una serie di sostanze utili all’organismo: vitamine A, B e C, sali minerali come il potassio, pectina che aiuta a bruciare il colesterolo, flavonoidi che contrastano i soliti e fastidiosi radicali liberi che si aggirano nel nostro corpo, fibre complesse che aumentano il senso di sazietà, senza l’assunzione di molte calorie.
Tutta questa ricchezza di sostanze in una sola affascinante, colorata, profumata, succosa e croccante mela, che costa pochi soldi. Può bastare?

Oggi, nel mondo, si stima che esistano almeno settemila varietà di mele consumate dall’uomo, a fronte di continui incroci creati per esaltarne le caratteristiche: dalle Fuji alle Delicius, dalle verdi Granny Smith alle Stark (la mela rossa delle favole), dalle Royal Gala alle Pink Lady, senza dimenticare la mitica Renetta e l’antica, piccola e aromatica Annurca, che vive in Campania da almeno duemila anni.
Questo prezioso dono della Natura, nasce nell’Asia Centrale.
Lo conferma il fatto che una delle principali città del Kazakistan si chiami, appunto, Almaty, ovvero, “il posto delle mele”, per la grandissima quantità e diversità genetica di mele selvatiche che storicamente crescono in quella regione.
Da lì, grazie alle migrazioni indoeuropee, ai Romani e ai viaggi commerciali, si diffusero in Italia e in Europa, tanto da diventare nell’immaginario popolare simbolo di bontà e d’armonia, collegato al divino.
Non più pomo della discordia, causa scatenante della Guerra di Troia, ma rappresentazione ricorrente nell’arte figurativa e di passioni e sentimenti in ogni tempo delle mele.
Nel bene e nel male, resta il cibo degli dei e degli umani, dolce quanto basta, invitante e seducente come il fascino del peccato.
12 novembre (Alfredo Laurano) 

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