“Tipitipitipitì dove vai, cosa fai, come
mai…”, così cantava Orietta Berti, nel lontano 1970.
Oggi, scopriamo, invece, il TTPI che, a parte l’assonanza, è ben
altra cosa, che non si canta, non si balla, ma un po’ tanto fa preoccupare.
TTPI: poco si conosce, poco se ne sa, poco se ne parla.
Quanti hanno sentito spiegare questo strano
acronimo, che sta per “Transatlantic
Trade and Investment Partnership”? Qualche rapida notizia ai TG per
riferire della manifestazione-anti di qualche giorno fa a Roma, qualche
articolo di stampa o sul Web, qualche spunto di dibattito nei talk, con pareri
di chef stellati, nutrizionisti e imprenditori di settore.
Chiarimenti, motivazioni e approfondimenti,
praticamente nulli: anche i media “tengono famiglia” e non possono inimicarsi
fonti pubblicitarie, lobby economiche e multinazionali.
Il trattato transatlantico per il commercio e
gli investimenti è un accordo commerciale di libero scambio, in corso di
negoziazione segreta, da circa tre anni, tra l’Unione Europea e gli Stati
Uniti d’America, che ha lo scopo dichiarato di modificare regolamentazioni e
standard esistenti e di abbattere dazi e dogane, per rendere il commercio più
fluido e penetrante. Un sistema per far circolare le merci più facilmente,
senza le barriere definite dai tecnici “non
tariffarie”.
Ciò genererebbe nuove opportunità economiche
e creazione di posti di lavoro, grazie a una crescita determinata anche da una
più globale semplificazione normativa.
Sulla carta, e in teoria, tutto giusto e
condivisibile.
Ma cosa potrebbe produrre, in realtà, tale
liberalizzazione, se venisse approvata nella sua forma attualmente conosciuta?
Essendo i negoziati orientati alla
privatizzazione dei servizi pubblici, si rischia la loro progressiva scomparsa.
Tutti i settori di produzione e consumo come cibo, farmaci, energia, chimica,
ma anche tutti i diritti connessi a servizi essenziali e di alto valore sociale
- come la scuola, la sanità, l’acqua e la previdenza - sarebbero esposti a tale
ulteriore, eventualità e alla potenziale acquisizione da parte di imprese e
gruppi finanziari più potenti, e dunque, più competitivi. Contratti di lavoro o
di protezione sociale o ambientale, potrebbero essere spazzati, via attraverso
adeguate azioni legali.
Molte insidie e conseguenze negative
correrebbero anche le piccole e medie imprese agricole che, non essendo in
grado di reggere la concorrenza con le multinazionali, entrerebbero in crisi,
se non venissero più protette dai dazi doganali e, soprattutto, se venisse dato
il via libera alle colture OGM.
Ci sarebbero anche rischi per i consumatori
perché le leggi europee sono diverse da quelle americane.
In Europa vige il principio di precauzione -
l’immissione sul mercato di un prodotto avviene dopo una valutazione dei rischi
- mentre negli Stati Uniti si procede al contrario: l’osservazione viene fatta
in un secondo momento, anche in base alle conseguenze o a eventuali problemi
legati alla messa in circolazione del prodotto (denunce, ricorsi collettivi o
class action, indennizzazione monetaria).
Oltre alla questione degli OGM, questo
riguarda anche l’uso di pesticidi, l’obbligo di etichettatura del cibo, la
protezione dei brevetti farmaceutici, ambiti nei quali la normativa europea
offre tutele maggiori.
In molti si oppongono all’accordo:
dall’organizzazione internazionale Attac, a Greenpeace, a una rete di
associazioni di vari Paesi, compresa Slow Food, fino a studiosi ed economisti
vari.
Oltre ai temi e ai timori accennati, le
principali critiche ai negoziati si riferiscono soprattutto alla loro
segretezza, alla mancanza di trasparenza e anche il fatto che il principale
studio sui benefici dell’accordo sia stato condotto da un Centro di studi
economici di Londra, poco credibile perché finanziato da grandi banche
internazionali.
In definitiva, visto che il commercio tra EU
e USA è già libero, quasi al 100%, il vero obiettivo del trattato di
liberalizzazione commerciale è proprio l’eliminazione delle barriere normative
che in Europa hanno standard più rigidi, come le leggi ambientali e di
sicurezza alimentare.
Anche se, va comunque detto, negli allevamenti intensivi di polli, suini, bovini e conigli vengono di fatto già somministrati, in Italia e Europa, estrogeni e antibiotici, anche a scopo preventivo.
Poi, il divieto di importare frutta e verdura
geneticamente modificata: non è prevista nessuna etichetta identificativa su
prodotti OGM e su quelli trattati con ormoni e pesticida glisofato e quindi nessuna
tutela per il consumatore che non è in grado di distinguere.
I prodotti delle multinazionali USA sono
molto più economici - oltre che più scadenti - di quelli degli agricoltori e
allevatori europei e, una volta introdotti sul mercato, potrebbero provocare la
chiusura di molte imprese locali, la perdita di migliaia di posti di lavoro, la
scomparsa di prodotti tipici e tradizionali.
Il TTPI vorrebbe quindi uniformare le regole
sui controlli delle filiere, delle certificazione delle Dop e dell’Igp, dei
sistemi di allevamento, di ormoni nei mangimi, di utilizzo della chimica e di
semi transgenici nei campi, di etichettatura e tracciabilità. Per tutto questo
è quindi una minaccia, è pericoloso per la salute di tutti e va fermato con
ogni mezzo o azione consentiti.
Ciò che è buono per le aziende e le
multinazionali può essere buono anche per i cittadini?
Il giornale britannico Guardian ha scritto: “quando il 92% di coloro che sono coinvolti
nelle trattative sono lobbisti, i consumatori hanno tutte le ragioni di
sospettare che a beneficiare del TTIP saranno soprattutto le grandi
corporation, a scapito della democrazia”.
14 maggio 2016 (Alfredo Laurano)
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