Un lungo flash-back che racconta il pensiero
e la storia di Felicia, madre di Peppino Impastato, costituisce la struttura di
questo film di Gianfranco Albano, che inizia con una scena molto suggestiva:
l’ingresso della donna, incerta, intimorita e titubante, nelle grandi sale del
Palazzo di Giustizia.
Nella dettagliata deposizione al Tribunale di
Palermo nel 2000, Felicia prende coraggio e ripercorre davanti alla Corte
quello che è avvenuto dal 1978 al 2000: dall’uccisione di suo figlio Peppino,
per mano della Mafia, ai tentativi di infamarlo e di farlo passare per suicida
terrorista; dai depistaggi di stato, alle morti violente dei giudici, alla sua
implacabile ostinazione di madre che vuole giustizia.
La sua testimonianza si snoda fra le ricorrenti
immagini del pestaggio estremo di Peppino, delle iniziative dei suoi compagni e
del fratello Giovanni per cercare prove e tracce - che nessun altro vuole
trovare - delle minacce di mafiosi, delle reazioni popolari del pigro paese di
Cinisi.
Mostrano, soprattutto, la dignità e la
fierezza di questa speciale donna siciliana, senza indulgere mai nel dolore e
nell'autocommiserazione. Fierezza di una madre per un figlio che ha sostenuto
fino alla morte le proprie idee e che in quelle idee si identifica. Che si batte
con tutte le sue forze per arrivare a una complessa e, per molti, scomoda
verità, che travalica la questione personale, per diventare conquista dell'intera
collettività.
Nel film, pur animato dalle migliori
intenzioni, tutto questo pathos sopravvive soprattutto grazie
all'intensa interpretazione di Lunetta Savino, potente nella mimica e credibile nella
sua determinazione.
In alcune sue espressioni più intime si percepisce la
solitudine di una donna devastata dalla morte del figlio ma, nello stesso
tempo, decisa e consapevole di potergli dare ancora voce e di continuare la sua
lotta, anche contro le contaminazioni mafiose, all’interno della stessa sua
famiglia, che parlano solo di vendetta.
La sceneggiatura non aiuta molto quel suo
lungo percorso di sfida al potere mafioso e delle istituzioni, all’omertà, alla
calunnia e all’indifferenza. Appare un po’ approssimativa e lacunosa, non scava
a fondo nei risvolti dell’inchiesta, non spiega le responsabilità oggettive e i
depistaggi, mentre privilegia alcune sequenze, a volte poco utili nell’economia
dei fatti descritti.
I dialoghi, essenziali, si fermano al minimo
della costruzione narrativa e alcuni personaggi chiave - il giudice Chinnisi,
l’esperto criminologo, la giovane magistrata - hanno scarso rilievo e poca consistenza
nella lunga e tortuosa vicenda giudiziaria.
Della convinta battaglia combattuta da
Felicia nei corridoi della Procura, contro la burocrazia istituzionale, contro
l’inerzia di certi apparati e contro i pregiudizi dei benpensanti, c’è poca
traccia o solo qualche accenno.
Come anche del suo costante lavoro di
educazione alla legalità, svolto nelle stanze della sua casa museo,
tratteggiato con una certa sufficienza e con modalità quasi romantiche.
Un’opera sicuramente difficile da costruire e
da realizzare, perché sicuramente difficile è la storia che la ispira.
Si ha la sensazione di una trama fragile e
parziale che, pur di restare asciutta e di non rischiare qualsiasi slittamento
nella retorica, limita o non favorisce un particolare coinvolgimento emotivo.
Alcune situazioni si ripetono, senza aggiungere ulteriori contributi alla
narrazione e alla naturale commozione, e un po’ annacquano la drammatica condizione
vissuta per anni e anni da una madre coraggiosa, per riscattare quel figlio,
che ebbe anche il torto di farsi ammazzare proprio il giorno del ritrovamento
del corpo di Aldo Moro e, quindi, quasi ignorato dalla grande macchina
mediatica.
Fino a quando, con orgoglio e con legittima
soddisfazione, può finalmente puntare il dito contro colui che, fin dal primo
giorno, tutti sapevano essere "il comandante" dell'omicidio del
figlio, Tano Badalamenti, dopo soli 22 anni di tormento, di lotta e di infinita
attesa.
12 maggio 2016 (Alfredo Laurano)
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