L’equivoco è un
salvagente. Non costa niente e basta saperlo utilizzare.
Nel gran casino della
vita, secondo Elio Ria, è il migliore antidoto per le colpe e per gli errori.
Nel teatro, da
sempre, è invece un ingranaggio irresistibile, un motore straordinario, che non
s’arresta mai, che suscita l’ilarità e produce allegria e divertimento puro.
Ce lo ha insegnato Plauto,
archetipo del teatro leggero italiano, ma anche Goldoni, il cinema di Totò, le
macchiette di Gigi Proietti e, più tragicamente, lo stesso Shakespeare.
Fine della commedia
plautina era, infatti, risum movere, scatenare il riso, e per questo l’autore
latino si avvaleva non solo della comicità in rebus (di situazione), ma anche
in verbis (di parola): doppi sensi, parole storpiate, ambiguità lessicali.
Questo genere di
teatro piaceva - e piace ancora - perché
si rivolgeva indistintamente sia al popolo più semplice e verace, sia agli
uomini più colti e istruiti del tempo.
Il suo scopo, infatti,
non era quello di erudire, di trasmettere messaggi morali o politici, né, tanto
meno, quello di educare, attraverso la commedia, quanto piuttosto quello di
intrattenere e far semplicemente ridere. Oggi parliamo di genere evasione,
svago, e distrazione
La “Vis Comica”,
quindi, nasceva da fraintendimenti, da dialoghi a volte surreali, farciti di
espressioni popolari, proverbi, tormentoni, spesso in contesa con la
prevedibilità e la ripetitività delle trame. O veniva provocata dall’esasperazione
dei sentimenti naturali, da temi ricorrenti e luoghi comuni, da personaggi
fissi e scambi di persona.
Come accade, appunto,
nella vivacissima “Pensione Colosseo” di Tonino Tosto, rivisitazione di quella
“Pomodoro”, scritta da Fiorenzo Fiorentini.
Siamo nel 1934 a
Roma, Isolina (una perfetta e determinata Simona Lattes), proprietaria della
Pensione fa di tutto per rendere gradevole l’atmosfera per gli amici e per i
suoi ospiti. Rinomati i suoi “Sabati danzanti”, cui tiene moltissimo.
Quando decide di
sostituire il suo cameriere mezzo sordo, Pandolfo (un eccellente Alberto Puccio
- anche nel doppio ruolo del dottore - che ricorda le gag di Gigi Proietti-Duval,),
si rivolge all’ agenzia Rapetti, che manda Felice (un disinvolto Giulio
Marotta). Il nuovo cameriere, suo malgrado, si ritroverà coinvolto in una
paradossale avventura, dai risvolti pacchianamente kafkiani.
Tra un quadro e
l’altro, verrà scambiato, a turno, per un medico in visita ad un cliente
malato, per il promesso sposo della figlia di un gerarchetto siciliano, per un
aspirante fidanzato che risponde ad annunci matrimoniali, per un nobile
spagnolo.
Equivoci e confuse identità
scombineranno ruoli e personaggi, in una commedia degna delle più famose pieces
di Feydeau: leggera, brillante, come quelle di una volta, che ricordavano
Petrolini, Checco Durante e Aldo Fabrizi.
La messa in scena è
gradevole, come pure adeguati i tempi, la regia di Susy Sergiacomo, le musiche
e la scenografia.
Un particolare plauso agli attori, tutti al massimo dell’impegno e delle proprie possibilità: da quelli già citati, al convincente Massimo Borghese (Don Anselmo, in abiti fascisti); dalla sempre naturale e aderente Ornella Petrucci (Leonilde, cuore solitario e amica di Isolina) alla brava Luisa Cannizzo (Tosca dal vago sapore pucciniano); dal frizzantissimo e spavaldo Andrea Scaramuzza (Pipino con la spada, invadente e petulante),
ai giovanissimi Giuseppe Cattani (Gualtiero, balbuziente) e Giorgia Pace (Carmelina ballerina), spontanei, calati e misurati nelle rispettive parti.
Un paio d’ore di esilarante
relax che si completa nella spassosa e coinvolgente quadriglia finale, dove
ogni artista guadagna i meritati applausi.
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