Il sacro rito si è finalmente celebrato dopo mesi di attesa,
dopo lunghe e molto preventive battute di caccia al biglietto in tutta la
nazione.
Il mito si è rinnovato, come vuole la prassi e la nuova
tradizione fideista, in quella eucarestia pagana e collettiva che, grazie alla transustansazione
del canto, degli antichi testi e delle note, sparate a milioni di decibel da
uno sterminato palco (come l’allegoria di pane e vino nella cristianità),
perpetua l’incarnazione del Verbo di Vasco, attua la comunione dei fedeli (fans)
con quel Redentore di anime libere di sognare.
Un esercito di 220.000 sudditi devoti e seminudi che si
nutre delle sue spoglie umane, ma tendenti al divino, che beve e consuma la sua
linfa vitale, in un’azione sacrificale, sotto il caldo soffocante del primo
luglio, che brucia l’immenso Modena Park.
Dopo una lunga notte sulla secca terra e un giorno sotto il
sole, alle ventuno arriva il comandante in elicottero. Tutti si sciolgono nell’entusiasmo,
i meno giovani, magari, pensano per sbaglio a Che Guevara: ma non scherziamo, è
solo blasfemia
“Vasco fammi godere”, “voi pregate il vostro dio, noi
preghiamo Vasco”,
“qui si fa la Storia” (d’Italia, del Risorgimento, della
Resistenza?) c’è scritto sui cartelli e sulle magliette che divulgano quella
liturgia, quasi musulmana, di quel popolo di invasati rocchettari.
Si, lo so, io non faccio testo, io sono antico, io
appartengo a un’altra religione, molto più laica e indipendente.
Non discuto, infatti, delle scelte altrui, non voglio
entrare nei gusti musicali e, forse, surrettiziamente filosofici e compensatori
di quei fans integralisti.
Ma capisco che in quella bolgia umana si consuma un mix di
emozioni, di passioni, di musica e delirio, un concerto che si vuol far passare,
retoricamente, “contro la paura”, come se bastasse a vincerla una semplicistica
dichiarazione, urlata al vento dell’assuefazione.
Tutto sommato, è andata bene: nessun attentato, un solo
morto per infarto e seicento soccorsi per malori vari.
Per essere una battaglia per la Storia, poteva andare peggio.
(Alfredo Laurano)
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