Da una parte, la
tranquilla vita quotidiana della popolazione nella città di Timbuktu, in Mali, dall’altra
il folle regime degli jihadisti, che impongono la sharia, attraverso una serie
di divieti.
L’Islam normale,
pacifico e moderato da una parte, il fondamentalismo religioso e ottuso dall’altra.
Tutto è
proibito. Non si può fumare, non si può cantare, suonare o ascoltare musica,
non ci si può sedere davanti l’uscio delle case, né giocare al calcio. Le donne
devono indossare il velo e i guanti (anche nel lavoro e per pulire il pesce).
Frustate a
volontà per tutti.
L’adulterio è punito con la lapidazione: una coppia di
fedifraghi viene interrata fino al collo e colpita nella faccia e nella testa,
che fuoriesce, da continue sassate, fino alla morte.
È la civiltà e la volontà
del loro Dio.
Questo il
contrasto stridente che il regista africano, Abdurrahman Sissako, racconta e
mette in evidenza nel suo bel film Timbuktu, girato nel 2014 (nelle sale, nel 2015),
messo in onda ieri sera da Raitre.
Un dualismo
incomprensibile e sconvolgente, non solo agli occhi del mondo laico e
occidentale, che convive in anime diverse, pur dello stesso credo.
Ma lo fa con
garbo, con delicatezza e quasi con rispetto, senza rabbia, né clamore spettacolare.
Non sceglie il sensazionalismo, la crudeltà delle immagini e delle situazioni,
il resoconto della violenza: sarebbe la strada più semplice, più immediata, più
diretta alla pancia dello spettatore
È, invece, un
invito a prendere coscienza, a capire a fondo il dramma delle popolazioni musulmane
vessate e represse da altri islamici, in nome di un Allah, prepotente, vendicativo
e intollerante.
Ogni sequenza
è comunque pervasa da una forte intensità emotiva, dove l’orrore è sempre
presente sullo sfondo o in posizione defilata. Ogni scena è carica di tensione,
ogni fotogramma racchiude i piccoli gesti delle attività umane, regolate dal
tempo naturale, dall’alternanza del giorno e della notte.
Come la
drammatica storia di Kidane e della sua semplice famiglia, che vive fra le dune
del deserto in una tenda, con i suoi buoi e con i suoi sani sentimenti, non
lontano dalla città, invasa e controllata dagli usurpatori integralisti.
Come la
straordinaria partita di pallone, su un campo sabbioso, dove i giovani
calciatori corrono, scattano, dribblano, colpiscono di piede e di testa, tirano
in porta, segnano, parano in tuffo, esultano…immaginando di giocare.
Ma il pallone
non c’è, è nella loro fantasia.
Quella vita in
armonia con la natura, con il paesaggio e con altri esseri viventi, che si
scontra ripetutamente con il dogma che diventa legge, rappresenta il dramma di intere
popolazioni di fronte alla barbarie di un potere perverso che giudica,
pregiudica e punisce e di una visione religiosa, ferocemente intollerante e
ipocrita, imposta dal suono dei kalashnikov.
Che consente
agli stessi suoi interpreti e aguzzini di fumare, di danzare sui tetti, di parlare
di calcio, di ridere, cantare e di abusare di donne e fare sesso mercenario.
Fra proclami e devozione, fra telefonini,
motociclette e pick-up che scorrazzano nel deserto.
(Alfredo Laurano)
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