Non ci sono più le mezze stagioni, come non
ci sono più le mezze misure e neppure le mezze porzioni in trattoria. Scarpe,
vestiti e bucatini solo per intero, come numero, taglia o quantità.
Ma non esistono più, neanche le mezze
opinioni, nel senso di sfumate, articolate, civili, moderate, obiettive,
ragionate e aperte.
Oggi più di ieri, e come non mai, l’Italia è
sempre spaccata su tutto: si è pro o si è contro, o guelfi o ghibellini, o
bianchi o neri. I grigi son finiti, in cinquanta e varie sfumature, solo in
certi libri di cassetta.
Ma anche nella cronaca rosa, gialla, e
soprattutto nera, il fenomeno è cresciuto in modo esponenziale: colpevolisti e
innocentisti, una volta schierati su diverse sponde di pensiero, come dicono a
Napoli, “si pigliano a mazzate”.
Negli ultimi anni, i casi di Avetrana, di
Yara, di Melania e Parolisi, di Amanda, di Roberta Ragusa, di Elena Ceste e del
piccolo Loris, hanno squarciato l’opinione pubblica. Ovviamente, per effetto
della copertura mediatica quotidiana assicurata alle rispettive cronache, ai
dettagliati racconti, alle insinuazioni e alle tante ombre scavate, ben oltre
la realtà dei fatti.
Centinaia di puntate televisive allestite
sempre con le stesse immagini e interviste montate, rimontate, rallentate,
commentate, riproposte - fino alla nausea - da inviati a tutto servizio, fra
collegamenti, stand up, ricostruzioni filmate e in studio, con esperti di
discipline varie (psichiatri, criminologi, avvocati, genetisti, generali).
Ogni capello è spaccato in quattro, ogni
parola scomposta e interpretata, ogni espressione, sguardo o battito di ciglia
filtrati dalla lente di improvvisati Maigret o Sherlock Holmes. Mancano solo i
Ris, all’opera sotto i riflettori.
Tutto ciò che è informazione è un fenomeno di contagio
sociale.
Ma, da quando siamo diventati popolo di
poeti, santi e commentatori, ogni parere, ogni confronto è diventato una sfida
dialettica, un duello all’arma bianca o nera di volgarità, un derby
dell’intolleranza, giocato da tifosi scatenati da curva sud, schieratissimi e
agguerriti.
Per sostenere la colpevolezza o l’innocenza
di Logli, di Sabrina, del caporale, del pompiere o della giovane madre
siciliana, non si usano più argomenti o indizi reali, ma sensazioni viscerali, ingiurie,
sputi digitali contro chiunque la pensi in senso contrario.
Non dialogo, dubbi,
domande e voglia di capire, ma sentenze, pregiudizi, verità apodittiche.
Basta visitare qualche relativa pagina
internet, nata allo scopo di accusare o di difendere. Tutti giudicano tutto,
pur senza averne titolo e diritto, né alcuna competenza o conoscenza. Un po’ per
moda e per costume, per emulazione, per schierarsi, per protagonismo, per
comodo conformismo, per abitudine, per sentito dire o perché “così fan tutti”.
Sono i nuovi ultras del nuovo stadio
digitale, moderno sfogatoio di pulsioni represse e irrazionali.
Va tenuto conto che il linguaggio si
deteriora anche per effetto del mezzo usato (il medium è il messaggio): italiano
pericolante, espressioni contorte e incomprensibili, costruzioni approssimative,
sgrammaticature a cascata, punteggiatura non pervenuta.
Proviamo a giudicare i fatti, non le persone
e il loro dolore e ricordiamoci - l’ho scritto e riscritto fino alla noia - che
la tastiera è un’arma micidiale che ferisce, che colpisce e, a volte, distrugge
anche una fragile esistenza.
Il mouse è un lanciamissili che può arrivar
lontano e colpire il cuore della sensibilità. E lo schermo non è un
nascondiglio o una corazza e non protegge l’imbecillità.
Siamo alla pandemia dell’odio digitale.
Solo che, in questo caso, a passare di persona
in persona non è un virus, ma un pregiudizio, un concetto, un’illazione che si
diffonde di testa in testa e infetta altri con un clic o un “mi piace”. Il Web
rende più cattivi, accentua invidie e gelosie, eccita il fanatismo.
Basta accendere il pc, collegarsi alla Rete e
aprire Facebook, dove coesistono diversi universi destinati a non incontrarsi quasi
mai e popolati da predicatori e opinionisti con gli stessi interessi, le stesse
paure, la stessa arroganza: tutti uniti dalla stessa dieta mediatica.
Chi siamo noi per giudicare, decidere,
condannare?
Facciamoci, ogni tanto, un esamino di
coscienza e poi rileggiamo quello che scriviamo. Qualcuno, forse, ci
ripenserebbe, prima di sputare sentenze gratuite sul dolore e sulle tragedie
degli altri.
17 febbraio 2015 (Alfredo Laurano)
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