Tutti grandi
critici, tutti raffinati esperti e commentatori -
con la “t”, altrimenti, sarebbe un titolo onorifico, come “Cavaliere” o Grande
Ufficiale” - del tutto e del nulla.
Oltre, a quelli già di ruolo, ovviamente ufficializzati dai
media, imperversano ora quelli creati, sdoganati e nati come i funghi in ogni
umido territorio della retorica del gossip parolaio.
Dilaga la mania di dire la propria, di sparare la propria
cazzata, senza avere il porto d’armi dialogico e la minima competenza, in calce
a ogni articolo di stampa, ai post su Facebook o su Twitter, nei serpentoni
delle trasmissioni televisive.
Di giudicare con certezza, e senza neanche il beneficio del
dubbio, gli scottanti casi di cronaca nera, gialla e anche rosa o puntinata: dai
delitti più efferati agli amori di Belen, dalle tragedie naturali a quelle
delle guerre e terrorismo, dalle migrazioni alla corruzione, alle politiche
estere e sociali.
E’ di moda una nuova corrente di pensiero, quella di criticare,
irridere, offendere chi esprime opinioni diverse dalle proprie. Di condannare
senza appello, di incitare all’odio e alla vendetta, di augurare il male e il
peggio: una montagna di insulti che equivalgono a massime e pensieri. Insomma,
si spara a tutto ciò che si muove e appare nell’infinito orizzonte della
notizia non stop.
Grazie all’universalità del Web, tutti hanno scoperto di poter
avere un ruolo, anche se marginale o infinitesimale, e di contare - magari come
un liscio a briscola - in quella sterminata prateria virtuale che fornisce,
gratuitamente, stimoli e risorse per gratificarsi e rivalorizzarsi, anche
all’ultimo degli ignoranti. Fino al compiacimento e al relativo appagamento
formale, dato dal riscontro e dai like degli interlocutori.
Dappertutto, meno che nelle aule dei tribunali, si svolgono
processi e arringhe popolari, dove è sempre più difficile distinguere le
vittime dai violentatori, i narcisi dai tronisti, i predicatori dagli
innocentisti, gli arzilli anziani della De Filippi dagli Amici di (della
stessa) Maria, i politici dai comici, le controfigure dalle persone, le
maschere dai volti umani. Si vive sempre più nella fiction quotidiana.
E’ come se di tutta la realtà, la civiltà della comunicazione globale
ci mostrasse una volgare parodia, una caricatura, un fumetto, mal disegnato e
approssimativo, dal Decamerone ai Promessi Sposi, passando per il Capitale e
l’Enciclopedismo, fino al Calcio e al Futurismo. Molto peggio di quanto
facessero, con intelligenza e ironia, il glorioso Quartetto Cetra o la “bella
figheira” del trio Lopez-Solenghi-Marchesini.
Prima, al massimo, c’era il televoto, il SI e il NO, come a un
referendum, e l’interattività era un sogno proibito o una parolaccia.
Ora, grazie alla
cultura digitale che non richiede titoli, lauree o altre riconosciute
competenze, ognuno è ispirato e pontifica in un idioma, “gentil sonante e puro”, spesso cadente, approssimativo e difficile
da comprendere, anche perché privo o ritmato da una del tutto casuale o
latitante punteggiatura.
Tutti opinionisti, quindi, maitre a penser, spacciatori di
sentenze, divulgatori di scienza e coscienza, tali dal dover riformare
urgentemente i manuali di filosofia e psicologia sociale, per accostare al
pensiero di Platone o Campanella, quello del giovane rampante, del
neo-intellettuale da salotto, dell’imprenditore illuminato, della casalinga
stanca e sottomessa. Ovviamente, in ogni settore dello scibile e su questioni
di qualsiasi genere: dai trattati sulla nuova economia, alla ricerca sanitaria,
fino alle tagliatelle di nonna Pina e alle parabole renziane, post
berlusconiane.
E’ il nuovo sport nazional popolare che non distingue più
analfabeti e premi nobel, imbrattacarte e sommi artisti, strimpellatori e
grandi musicisti. Pure i Sollecito e gli Schettino che hanno fatto lezioni
all’Università.
E' spettacolo. E’ la commedia del banale quotidiano che è sotto
gli occhi di tutti.
Ma è, soprattutto, un gigantesco bluff, costruito a tavolino, da
chi ha il potere di orientare e decidere per noi, facendoci credere che
decidiamo noi.
E’ il business monopolistico della comunicazione mediale - dalla
proprietà dei mezzi di produzione (Il Capitale) a quelli dell’informazione
(Globalizzazione) - che riguarda Internet e TV, stampa, cinema, editoria: loro
stabiliscono cosa dobbiamo vedere e cosa leggere e sapere e noi vediamo,
leggiamo e sappiamo quello che ci impongono, pensando di scegliere ciò che ci
piace o non ci piace, discutendone fino allo sfinimento, fino alla sfida,
all’offesa e alla minaccia.
Ben oltre la ragione, l’educazione e la civiltà, calpestando il
dialogo e il rispetto, per alimentare, inconsapevolmente, una colossale
fabbrica di chiacchiere e consensi che fa soldi con un nuovo business.
20 febbraio 2017 (Alfredo Laurano)
Nessun commento:
Posta un commento