Ariecco
Sanremo, ariecco il festival della canzone italiana: un mito antico di musica e
folclore, il sessantasettesimo del suo calendario.
Molti
ancora lo amano e lo aspettano con ansia, quale più luminosa vetrina non solo
di orchestre e di cantanti, ma di ospiti, di vip e di emergenti, di mode, di
generi, di look, chiacchiere e pettegolezzi vari. Per poi commentare,
criticare, spulciare tra i dettagli.
Altri non
lo sopportano, lo disprezzano, lo contestano, lo ignorano, lo stroncano.
Ha ancora
un senso questo rito, quasi mistico e canonico, a tutto campo fra note,
simboli, feticci e lustrini? Quasi scritto nel Dna della nazione, come pizza, sole,
mafia e mandolino?
Non è
certo la centralità della musica, quale eccelsa forma d’arte e di comunicazione,
che viene messa in discussione - in quanto tale, è di per sé bella e
interessante in ogni sua coniugazione, o quasi: classica, leggera, pop, rock,
jazz, blues, folk, metal - quanto i suoi vari e insopportabili contorni ed
effetti collaterali: la martellante, noiosissima pubblicità, i trailer, i
numeri che contano, lo share, gli ascolti ed i confronti, gli abiti stravaganti
e, quest’anno, per stupire ancora, la sospirata ottava meraviglia televisiva nei panni
di Maria De Filippi, venuta in riviera dall’etere concorrente "a miracol mostrare”,
Per non
parlare delle troppe trasmissioni pre e post, delle dirette e dei collegamenti,
dei mille inviati e dei microfoni sprecati, dei selfie e delle patetiche
interviste.
Forse è
un po’ troppo per tutti.
La gara ormai
conta poco e la rassegna, che ha perso anche i fiori e l’antico appeal, è
diventata, nel tempo, una ricorrenza obbligatoria e nemmeno molto ambita, una
rampa di lancio per intese di mercato. Un salotto classico, un po’ sdrucito, che
il tempo ha logorato, ma, rilucidato, è ancora buono per riempire i palinsesti
e onorare il culto e la funzione.
Una volta,
quando le canzoni facevano innamorare e i 45 giri si regalavano alle feste e ai
compleanni, quando il festival era solo della musica e dei fiori, e non degli
sponsor e dei pettegolezzi alimentati ad arte, un senso probabilmente c’era: si
giudicavano i testi, le voci, le musiche, gli autori e su quel palco delle vere
meraviglie sfilavano Villa, Modugno, Mina, Pavone, Dalla, Celentano e il grande
Tenco, ucciso cinquant’anni fa dall’incompetenza e dal sistema, già allora spietatamente
commerciale.
Stasera
il teatro Ariston gli tributerà un doveroso omaggio, come negli anni a seguire hanno
già fatto altri artisti come De André, Lauzi, Paoli e Bindi, esponenti della
cosiddetta sua stessa scuola genovese, che lo hanno pianto, amato e ricordato.
Soltanto
dopo la sua morte, a ventinove anni, Luigi Tenco ricevette quel favore del
pubblico e della critica che gli erano stati negati in vita. Troppo tardi si è
capito quanto avesse rinnovato il panorama della composizione melodica italiana.
Appena
terminato quel disgraziato Festival del 1967, il suo ultimo disco "Ciao Amore, Ciao" - alla cui dolcezza
si sommò l’ulteriore significato simbolico della sua fine - andò letteralmente
a ruba nei negozi e tutte le sue canzoni - Vedrai vedrai, Un
giorno dopo l’altro, Mi sono innamorato di te, Se stasera sono qui, Lontano
lontano
- entrarono di diritto nella storia della musica italiana.
Ancora
oggi, così profondamente avvolte di triste bellezza, sono pezzi di autentica poesia
che commuovono e lasciano il segno.
Come fa
la vera arte che non conosce tempo.
7
febbraio 2017 (Alfredo Laurano)
“Guardare ogni giorno se piove o se c'è il
sole, per saper se domani si vive o si muore e un bel giorno dire basta e andare via. Ciao amore, ciao!”
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