“Nel bel mezzo di un gelido inverno”, film del 1995 di Kenneth
Branagh, liberamente adattato, scritto e diretto da Claudio Luti, è andato in
scena con la Compagnia dei Con-fusi, nel teatro di Porta Portese, di Roma,
completamente esaurito.
Un gruppo di più o meno disperati e depressi attori risponde
alla chiamata di un più o meno disperato e depresso regista teatrale.
In crisi d’identità e finanziaria, intende allestire una libera
e semiseria edizione dell’Amleto, al limite della farsa, fra molti disagi e
poche risorse, in una chiesetta inglese, sconsacrata. Anche se, “non tutti possono permettersi il lusso di
nutrirsi l’anima, che è prerogativa dei romantici”, dice il saggio Carnforth
(Alberto Piccio), tra un bicchiere e l’altro.
L’esilarante sequenza iniziale degli “scoraggianti provini”, mette subito a fuoco i contorni quasi surreali
della “scalcagnata compagnia di guitti”.
Si compone di una serie di soggetti, titubanti e litigiosi, che si calano in ruoli
e personaggi, e quindi attori, per riscoprirsi nel contempo uomini, donne e
gay, ognuno con la propria storia, le proprie manie, fobie, pregiudizi, difetti,
desideri e velleità. Questa eccentricità e le loro nevrosi esistenziali li
rendono intercambiabili e sovrapponibili nella comune e fluttuante identità di
attori e di persone che interpretano se stesse.
La rappresentazione parte lenta e un po’ noiosa per prendere
ritmo e brillantezza via via chi si dipana, fra prove, imprevisti, salti
temporali e un po’ di creativo caos, fino al prevedibile, ma naturale e ineludibile
finale, che solo la magia del teatro può regalare.
La struttura narrativa - in verità, deboluccia e incerta, e un
po’ sospesa fra le linee della parodia e del dramma, più reale che di scena -
non si sostiene sull’ironia e sulle classiche gag (un Amleto con colpi di mitra,
schiaffi e cadute), ma, pur con qualche riflessione sulla difficile situazione
del teatro - “quanto un dramma di
Shakespeare può ancora interessare la gente?” - punta e scommette sulla
caratterizzazione dei personaggi, che il testo dell’opera farà maturare e
crescere, superando difficoltà e vicende personali.
Attraverso i sentimenti, il confronto
con se stessi e con le proprie contraddizioni, tra sogni infranti, rivalità,
solidarietà, amicizia e qualche complicità, ognuno troverà una ragione di vita
e di speranza.
Una prova non facile per tutti, questo sentito omaggio alla musa
del teatro, dove ogni attore si impegna a disegnare i contorni del proprio
personaggio, come le sagome di cartone, rappresentanti il pubblico, che la
brava scenografa Fadge (Ornella Petrucci) costruisce per evitare posti vuoti nella
platea.
O come l’esuberante ed entusiasta Nina (Ofelia-Flaminia
Scardaone), cui spetta un plauso per l’effervescenza e la naturalezza. O il
disinvolto, anche nelle movenze, Terry (Andrea Pucciarmati), la puntuale,
essenziale e un po’ sacrificata Paula (Simona Lattes), la giusta e precisa
Molly (Giusi Martone) e l’appassionato Joe (Antonio Gentile), in cui il valore
del sacro palcoscenico - su cui ognuno, come nel mondo, recita la sua fragile
parte - prevale su quello della ricchezza materiale.
Per tutti gli altri, per la
scenografia in diretta e per i suggestivi momenti interattivi tra sipario
socchiuso e altre attrici in sala, con bimbo capelluto che vuol sapere del
gelato, una nota di merito che va oltre la trama e gli schemi, non sempre
lineari, a favore della parola, della gestualità e della capacità di emozionare.
Anche stavolta, i Con-Fusi teatranti, in cerca di conferme, di
gloria e di consensi, hanno svolto con successo il loro ingrato, ma
appassionante lavoro.
In fondo, diceva qualcuno, “recitare
a teatro è rappresentare se stessi nudi e crudi camminando su assi
scricchiolanti e dentro a costumi di scena che, nella maggior parte dei casi,
assomigliano a un resort di lusso per tarme sedentarie.”
Tarme a parte, loro l’hanno
fatto, senza nemmeno inciampare in quelle assi scricchiolanti.
17 gennaio 2016 (Alfredo
Laurano)
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