Ne abbiamo tante, forse troppe, nelle
nostre tasche.
Da quella sanitaria a quella bancomat, passando per quella d’identità,
della metro, del supermercato, dello stadio, del teatro…
Anche i più bisognosi e i più indigenti ne
hanno almeno una: quella di povertà, che oggi si chiama social card. Questa,
però, di solito, è unica e sola.
Ma, magari, ci manca proprio quella del PD!
Difficile, ma può capitare.
Qualche
bravo e solerte segretario di sezione ce la fornirà senza farne la richiesta,
ad libitum. Tanto per alzare l’audience!
Una
volta c’era quella, obbligatoria, per il pane e la farina che permetteva di
mangiare. Quella del partito che ci faceva sperare nel sol dell’avvenir e in un
mondo migliore. Quella della P2 che garantiva protezione, aiuti ed amicizie
importanti.
Ognuna, comunque, soprattutto oggi, è
simbolo di appartenenza, di fedeltà e di adesione a un gruppo o ad un progetto.
Uno strumento di democrazia che si sceglie liberamente perché si crede in un’idea.
La tessera ha un valore fortemente
rappresentativo e distintivo che non può essere svilito da irregolarità, scambi
da mercato e trame congressuali, soprattutto agli occhi di chi ancora crede
nella buona politica e sostiene con passione e con fierezza – com’ era ai tempi
del PCI – le proprie convinzioni. C’era qualcuno che la tessera del PCI la
esibiva con orgoglio anche al seggio o in farmacia.
Queste vergognose risse, polemiche e
sospetti sulle tessere gonfiate del PD sono la naturale conseguenza delle divisioni
e dello scontro in atto fra le diverse anime di quel partito, costrette a
confrontarsi in un multi-contenitore, promiscuo ed eterogeneo, degno della
peggiore DC delle correnti, di cinquant’anni
fa.
Con
buona pace di chi rimpiange e ha nostalgia di Berlinguer.
8 novembre 2013
(Alfredo Laurano)
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