mercoledì 18 settembre 2019

BANGLA E BASTA /1859

L’ultimo nato nel quartiere Prati, a via Silla.
Ormai ce n’è uno ogni pochi metri e continuano a nascere come funghi.
Sembra ce ne siano più di cinquemila in città, oltre mille nel solo centro storico.
Per aprirli, basta una dichiarazione di inizio a attività, prevista dall’ex governo Monti.

Nella capitale, questi piccoli negozi, segnalati da rozze luci al neon, sommersi da frutta e verdura, senza l’indicazione di provenienza, inscatolati alimentari, acqua, fazzoletti, calamite e cianfrusaglie di ogni tipo, stanno da tempo sostituendo vecchie botteghe e negozi storici.

Sono i minimarket “bangla”, gestiti da venditori di tutto, romanescamente detti bangladini, sempre e solo d’origine Bangladesh.
E sono sempre aperti, anche di notte, soprattutto per gli alcolici che, secondo Confcommercio, costituiscono il 60% dell'incasso notturno. 
Non dovrebbero venderli ai minorenni, ma chi si mette a chiedere i documenti? “Annamo dal bangla”, dicono i ragazzi che di sera risparmiano comprando una birra in questi esercizi, anziché al bar.

Ma come fanno a sopravvivere tutti questi bangla?
In tantissimi ce lo chiediamo, anzi ci facciamo una serie di logiche domande: ma con quale criterio concedono le autorizzazioni in Comune?
Come fanno a pagare gli altissimi affitti dei negozi della zona? Quanto incassano mensilmente? Quanto riescono a vendere, oltre a qualche bottiglietta d’acqua e qualche litro di latte a chi l’ha dimenticato?
E’ tutto riciclaggio, ripulitura di denaro sporco? Ramificazioni di mafia locale o di importazione?
Qualcuno, Municipio, Comune, polizia locale può dare qualche risposta ai cittadini?
 (Alfredo Laurano)

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