Ormai ce n’è uno ogni pochi metri e continuano
a nascere come funghi.
Sembra ce ne siano più di cinquemila in città, oltre
mille nel solo centro storico.
Per aprirli, basta una dichiarazione di inizio
a attività, prevista dall’ex governo Monti.
Nella capitale, questi piccoli negozi,
segnalati da rozze luci al neon, sommersi da frutta e verdura, senza
l’indicazione di provenienza, inscatolati alimentari, acqua, fazzoletti,
calamite e cianfrusaglie di ogni tipo, stanno da tempo sostituendo vecchie
botteghe e negozi storici.
Sono i minimarket “bangla”, gestiti da
venditori di tutto, romanescamente detti bangladini, sempre e solo d’origine Bangladesh.
E sono sempre aperti, anche di notte,
soprattutto per gli alcolici che, secondo Confcommercio, costituiscono il 60%
dell'incasso notturno.
Non dovrebbero venderli ai minorenni, ma chi si mette a
chiedere i documenti? “Annamo dal bangla”, dicono i ragazzi che di sera
risparmiano comprando una birra in questi esercizi, anziché al bar.
Ma come fanno a sopravvivere tutti questi
bangla?
In tantissimi ce lo chiediamo, anzi ci facciamo
una serie di logiche domande: ma con quale criterio concedono le autorizzazioni
in Comune?
Come fanno a pagare gli altissimi affitti dei
negozi della zona? Quanto incassano mensilmente? Quanto riescono a vendere,
oltre a qualche bottiglietta d’acqua e qualche litro di latte a chi l’ha
dimenticato?
E’ tutto riciclaggio, ripulitura di denaro
sporco? Ramificazioni di mafia locale o di importazione?
Qualcuno, Municipio, Comune, polizia locale può
dare qualche risposta ai cittadini?
(Alfredo Laurano)
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