Da una parte un movimento che si definisce post-ideologico, né di
destra, né di sinistra, che guarda al pragmatismo e ai programmi, lontano da
schemi e gabbie fideistiche.
Dall’altra un partito ancor più post ideologico, post comunista, post
democristiano e forse pure post democratico: infatti ora è guidato da un
segretario sempre sorridente, Zingaretti, ma condizionato, ricattato e ancora
comandato da un ex premier, trombato, ma ancora in piedi, nonostante le
promesse fatte.
Questo nuovo governo non è certo un matrimonio d'amore, ma nemmeno solo
d'interesse: è una scelta obbligata, fondata su una serie di normali tradimenti
e colpi bassi, di false e rinnegate promesse, di pesanti e reiterati insulti, di
colpo dimenticati, e, soprattutto, sulla paura di perdere e far vincere Salvini.
Di perdere consensi, poltrone, consistenza, ruoli e prestigio (e anche
pensioni) nella spietata savana elettorale. Forse, potremmo dire, un matrimonio
riparatore, pur senza peccato consumato.
C’eravamo tanto odiati… ma ora dobbiamo in qualche modo amarci.
Se dovesse abortire o fallire presto, per i due contraenti sarebbe un
disastro annunciato, elettoralmente parlando. Se si andasse al voto, non ne
uscirebbero solo perdenti, ma completamente a pezzi e vicini all’estinzione.
Uno stato di necessità, quindi, alla faccia di capitan Cocoricò che
ignorava, forse, che, secondo democrazia e Costituzione, non si va a votare,
sempre e comunque, in caso di crisi, quando esiste un’altra possibile
maggioranza in Parlamento. Altrimenti si andrebbe alle urne ad ogni starnuto di
governo, anche ogni quattro, cinque mesi.
Ma il futuro resta incerto, in attesa di far digerire alle rispettive basi
- le famiglie e i parenti degli sposi - tutte le contraddizioni di questa
storia d’amore forzato, che si sta dipanando sotto gli occhi del Quirinale
consenziente e di un intero popolo, sconcertato come non mai.
In fondo, quello fra M5S e Pd, nonostante i reciproci anatemi e il
disprezzo di facciata, era un appuntamento fatale: tutti sapevano che prima o
poi si sarebbe concretizzato, anche se nessuno lo diceva.
E poteva realizzarsi già da tempo, dalle battute stonate di Fassino, dai
tentativi del buon Bersani e, soprattutto, in occasione dell’elezione del capo
dello Stato, quando Grillo lanciò la sfida al Pd: “Votiamo insieme Rodotà e poi
facciamo il governo insieme”. Lì si vide, ricorda Travaglio, che Bersani era
solo: Napolitano, Letta e il grosso del Pd avevano già in tasca l’inciucio con
Berlusconi &Verdini.
E anche l’anno scorso, dopo la sonante vittoria del quattro marzo, Di
Maio propose un contratto di governo anzitutto al Pd, che Renzi fece saltare
con i suoi niet e con orrore, spingendo gli entusiasti vincitori tra le braccia
della Lega, e regalando a Salvini 14 mesi di ascesa e di trionfi, scioccamente
poi dallo stesso buttati al vento.
Ora, nonostante i Don Abbondio e i Don Rodrigo, questo sposalizio si
farà, anche se, fra diffidenze e gelosie, il nuovo esecutivo non avrà vita
facile e subirà presto il contraccolpo delle elezioni regionali e della manovra
finanziaria. E la discontinuità antisovranista e antipopulista, che, sindacati,
partiti, Vaticano e fronte popolare anti-Salvini, schierati a difesa del
sistema, annunciano convinti, sarà reale?
E “l’avvocato di tutti gli Italiani”, Giuseppe Conte, quotato pure da
Trump e da Bill Gates, saprà garantirla e realizzarla??
30 agosto 2019 (Alfredo Laurano)
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