lunedì 5 agosto 2019

TRE SOMARI E TRE BRIGANTI


Tre caricature di politici teatranti, nati per l’avanspettacolo, il cabaret o l’operetta.
Tre somari e tre briganti sulla strada longa longa di Girgenti, come quelli cantati da Modugno.
Tre grandissimi cazzari che hanno devastato l’Italia negli ultimi decenni e fatto vergognare gli italiani, brava gente, o ridotti in schiavitù mentale, soggiogati da chiacchiere, promesse e demagogia.
Tre principi del cazzeggio di colori assai diversi, ma assai simili nel fare ammuina, raccontando frottole e storielle a un Paese rassegnato, che non sa o non può più reagire, pronto a osannare il primo cantastorie di passaggio, che promette e giura, in nome di un sano populismo, che seduce e che attanaglia, come in una barzelletta del mitico Proietti.

Il primo fu quello azzurro, il patetico miracolato d’Arcore che, grazie alle sue TV, ha sfruttato l’intero sistema mediatico.
Quello del milione di posti di lavori, dei cartelloni sei per tre in ogni strada, delle leggi ad personam, costretto a scendere in campo per salvare l’Italia, dopo la disfatta dei partiti, cancellati da Mani Pulite, o per pararsi il culo e lo sterminato patrimonio, come sostiene più di qualcuno.
Per una ventina d’anni ci siamo dovuti sollazzare con le sue peripezie postribolari che non ci hanno risparmiato le Ruby, le D’Addario, le Minetti, le nipotine, le olgettine e zoccole varie, la lap dance e le barzellette sceme, al soave profumo di bernarda.
A lungo perseguitato dai “giudici comunisti” e dalla disgustata moglie, fu processato, condannato, disarcionato da cavaliere e da senatore, per amore del potere e della gnocca - suo chiodo fisso e compulsivo - che, fiorente, si riproduceva nelle sue ville, grazie ai suoi lenoni come Fede, Tarantini e Lele Mora, e cantata in ode dal fedelissimo Apicella.
Esaurito il repertorio di stronzate e portato lo spread al massimo valore, lasciò il Paese ai tecnici di Monti, che, insieme alle lacrime della Fornero, aggiunse il carico da undici alle sofferenze dei poveri italiani esausti.

Poi venne il cazzaro rosa, Matteo I° detto Renzi, che annacquò fino a cancellarlo il vermiglio colore della tradizione di Sinistra, che dalla guerra in poi seppe offrire un riferimento certo, un orgoglio e una fede a tutto un popolo.
Continuando con le bugie, le slide e le assemblee leopoldiane, l’arrogante epigono di Berlusconi, per presentarsi degnamente, pugnalò subito alle spalle  il tranquillo Letta e abolì l’articolo diciotto, cosa che, grazie a Cofferati e ai milioni di lavoratori scesi al Circo Massimo, neanche il suo putativo padre era riuscito a fare.
Si rifece una certa faccia con i famosi ottanta euro, che gli consentirono di fare il pieno alle regionali, ma fu solo una meteora, anche perché, in parte, se li riprese e affondò il partito.
Amava i voli di stato anche per andare in pizzeria a Cortina o a fare la pipì sull’Arno, ma prometteva tutto il meglio agli italiani.
Poi, fra salvataggi di banche e di famiglie, fra scissioni e frantumazioni interne, scelse di passare alla Storia col referendum costituzionale che, al contrario, ne segnò l’ingloriosa fine.

Alla fine della fiera, per naturale continuità prosaica, arrivò il cazzaro verde a deliziarci con le sue gesta rivoluzionarie da paladino dell’ordine e della sicurezza. È Matteo secondo, il ministro di polizia e vice premier che non possiede un suo guardaroba, ma indossa e strumentalizza tutte le divise, di stato, di calcio e di cantiere, le felpe e le magliette, anche con gli slogan più banali e stupidi.
È il Salvin feroce saladino che arringa le folle - non più solo i celtici padani con le corna - che sventola madonne, rosari e crocefissi e difende la famiglia; che recita a soggetto la parte del bullo dell’Interno, spargendo odio, razzismo e intolleranza; che chiude i porti, “bombarda” le navi Ong e i barconi dei migranti, quando stanno per annegare.
Che fino all’altro ieri diceva e scriveva “c’è puzza di cani, sono arrivati napoletani e siciliani, forza Vesuvio, forza Etna, lavali col fuoco” (ora, quei poveretti, per gratitudine, lo votano pure).
Che fonda il suo consenso sulla retorica del padre di 60 milioni di italiani.
Che porta il suo bambino al mare, sui pedalò della polizia, mentre sparge mieloso paternalismo, assai utile al consenso popolare.
Che vive le responsabilità di governo come fosse al luna park o al Truman Show, o come due giorni fa ha fatto in discoteca al mare, cantando, con una folla di cubiste emancipate, l’inno nazionale, sculettando in mutande ed infradito.
Con buona pace di Mameli e di Novaro.
Ma che abbiam fatto di tanto male, da meritarci i tre cazzari?  
(Alfredo Laurano)

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