Tre caricature di politici teatranti, nati per l’avanspettacolo, il
cabaret o l’operetta.
Tre somari e tre briganti sulla strada longa longa di Girgenti, come quelli cantati
da Modugno.
Tre grandissimi cazzari che hanno devastato l’Italia negli ultimi
decenni e fatto vergognare gli italiani, brava gente, o ridotti in schiavitù
mentale, soggiogati da chiacchiere, promesse e demagogia.
Tre principi del cazzeggio di colori assai diversi, ma assai simili nel
fare ammuina, raccontando frottole e storielle a un Paese rassegnato, che non
sa o non può più reagire, pronto a osannare il primo cantastorie di passaggio, che
promette e giura, in nome di un sano populismo, che seduce e che attanaglia,
come in una barzelletta del mitico Proietti.
Il primo fu quello azzurro, il patetico miracolato d’Arcore che, grazie
alle sue TV, ha sfruttato l’intero sistema mediatico.
Quello del milione di posti di lavori, dei cartelloni sei per tre in
ogni strada, delle leggi ad personam, costretto a scendere in campo per salvare
l’Italia, dopo la disfatta dei partiti, cancellati da Mani Pulite, o per
pararsi il culo e lo sterminato patrimonio, come sostiene più di qualcuno.
Per una ventina d’anni ci siamo dovuti sollazzare con le sue peripezie
postribolari che non ci hanno risparmiato le Ruby, le D’Addario, le Minetti, le
nipotine, le olgettine e zoccole varie, la lap dance e le barzellette sceme, al
soave profumo di bernarda.
A lungo perseguitato dai “giudici comunisti” e dalla disgustata moglie,
fu processato, condannato, disarcionato da cavaliere e da senatore, per amore
del potere e della gnocca - suo chiodo fisso e compulsivo - che, fiorente, si
riproduceva nelle sue ville, grazie ai suoi lenoni come Fede, Tarantini e Lele
Mora, e cantata in ode dal fedelissimo Apicella.
Esaurito il repertorio di stronzate e portato lo spread al massimo
valore, lasciò il Paese ai tecnici di Monti, che, insieme alle lacrime della
Fornero, aggiunse il carico da undici alle sofferenze dei poveri italiani
esausti.
Poi venne il cazzaro rosa, Matteo I° detto Renzi, che annacquò fino a
cancellarlo il vermiglio colore della tradizione di Sinistra, che dalla guerra in
poi seppe offrire un riferimento certo, un orgoglio e una fede a tutto un
popolo.
Continuando con le bugie, le slide e le assemblee leopoldiane, l’arrogante
epigono di Berlusconi, per presentarsi degnamente, pugnalò subito alle spalle il tranquillo Letta e abolì l’articolo
diciotto, cosa che, grazie a Cofferati e ai milioni di lavoratori scesi al Circo
Massimo, neanche il suo putativo padre era riuscito a fare.
Si rifece una certa faccia con i famosi ottanta euro, che gli
consentirono di fare il pieno alle regionali, ma fu solo una meteora, anche perché,
in parte, se li riprese e affondò il partito.
Amava i voli di stato anche per andare in pizzeria a Cortina o a fare
la pipì sull’Arno, ma prometteva tutto il meglio agli italiani.
Poi, fra salvataggi di banche e di famiglie, fra scissioni e
frantumazioni interne, scelse di passare alla Storia col referendum
costituzionale che, al contrario, ne segnò l’ingloriosa fine.
Alla fine della fiera, per naturale continuità prosaica, arrivò il
cazzaro verde a deliziarci con le sue gesta rivoluzionarie da paladino dell’ordine
e della sicurezza. È Matteo secondo, il ministro di polizia e vice premier che
non possiede un suo guardaroba, ma indossa e strumentalizza tutte le divise, di
stato, di calcio e di cantiere, le felpe e le magliette, anche con gli slogan
più banali e stupidi.
È il Salvin feroce saladino che arringa le folle - non più solo i
celtici padani con le corna - che sventola madonne, rosari e crocefissi e
difende la famiglia; che recita a soggetto la parte del bullo dell’Interno, spargendo
odio, razzismo e intolleranza; che chiude i porti, “bombarda” le navi Ong e i
barconi dei migranti, quando stanno per annegare.
Che fino all’altro ieri diceva e scriveva “c’è puzza di cani, sono
arrivati napoletani e siciliani, forza Vesuvio, forza Etna, lavali col fuoco” (ora,
quei poveretti, per gratitudine, lo votano pure).
Che fonda il suo consenso sulla retorica del padre di 60 milioni di
italiani.
Che porta il suo bambino al mare, sui pedalò della polizia, mentre
sparge mieloso paternalismo, assai utile al consenso popolare.
Che vive le responsabilità di governo come fosse al luna park o al
Truman Show, o come due giorni fa ha fatto in discoteca al mare, cantando, con
una folla di cubiste emancipate, l’inno nazionale, sculettando in mutande ed
infradito.
Con buona pace di Mameli e di Novaro.
Ma che abbiam fatto di tanto male, da meritarci i tre cazzari?
(Alfredo Laurano)
(Alfredo Laurano)
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