La
storia di Fabo, e la sua fine, ha turbato e coinvolto tutti in un abbraccio di emozione
collettiva, che va al di là di ogni personale posizione sul senso della vita e
della morte, come scelta liberatoria e definitiva dal dolore.
Una decisione lucida e consapevole, non
suggerita da alcun giudizio morale o religioso - da cui tutti dovremmo
astenerci - assunta per mettere fine allo stato disumano in cui si
trovava: cieco e tetraplegico a seguito di un incidente stradale, completamente
paralizzato e ingabbiato in corpo, immobile, senza vita e forza, diventato
soltanto una zavorra buia e dolorosa, nemmeno più in grado di sentire una
carezza, di provare una sensazione, un pizzico di piacere. Uno stato di umana
insopportabilità.
Leggere
le note delle sue ultimi momenti in quella clinica svizzera dell’addio è stato
a dir poco commovente, un accrescimento della pietas, una lezione di “vita”, se
così si può dire, senza cadere in una goffa contraddizione.
Le
sue ultime parole per Valeria, per la madre, per gli amici. Il suo coraggio
smisurato.
Ha
ringraziato Cappato per l’aiuto e per la sua fermezza, ha salutato i suoi amici
del Giambellino, che lo hanno accompagnato in quel viaggio di sola andata,
dormendo accanto a lui nell’ultima notte alla stazione svizzera. A loro ha
raccomandato, con esemplare altruismo e un po’ di incredibile ironia, di usare
sempre le cinture di sicurezza in macchina: “per
andarmene più tranquillo”.
Non
sappiamo se abbia avuto paura o quale altra impressione o sentimento, oltre la
voglia certa di fuggire da quella prigione infame del suo corpo, “immobilizzato in una lunga notte senza
fine", ma sicuramente avrà sentito tutto il dolore, la
trepidazione e il dispiacere di allontanarsi per sempre da chi lo amava e gli è
stato vicino per tanto tempo nella sofferenza: i secondini buoni del suo
crudele carcere, i suoi custodi angeli. Dalla madre, sempre accanto, dalla sua compagna
Valeria, la sua vera voce, i suoi occhi, le sue braccia e le sue gambe da tre
anni.
Per
tutti, nella consapevolezza del quotidiano sacrificio che gli avevano dedicato
con smisurato amore, ha avuto parole di coraggio e di gratitudine, difficili e
forzate nella pronuncia, ma capaci di rappresentare, pur in quelle condizioni
estreme tutta sua forza, la sua dignità.
Poi,
capace di intendere e volere, ha morso quel pulsante.
Il
giorno dopo, un altro uomo, Gianni, di 65 anni, devastato da un tumore al viso,
è morto come Fabo nella stessa Dignitas, la clinica Svizzera della dolce morte.
La moglie che lo ha assistito, con la figlia ha poi ricordato: “Come diceva sempre, è stato più facile
morire che vivere senza dignità. Era tranquillo e ha sorriso”.
Aveva mandato
le cartelle cliniche e alla fine, dopo mesi di attesa, lo hanno convocato. “Siamo
partiti oggi all’alba in ambulanza e dopo sette ore ero qui”, racconta Gianni,
il giorno prima. “Al mattino la prima visita qui in albergo, alla sera la
seconda”.
Ma
come passerà l’ultimo giorno della sua vita? - gli chiede Sansa del Fatto
Quotidiano. “Questo pranzo, tutti
insieme, il chiasso intorno, la musica come in un qualsiasi ristorante, i volti
paonazzi degli altri clienti ai tavoli…ma saranno anche loro in attesa
dell’eutanasia?” Poi in camera per riposarsi, per cercare di dormire, anche
se sono le ultimissime ore che hai a disposizione per guardare, respirare,
parlare.
Il
pranzo è finito. Ci si abbraccia.
Attraverso la grande vetrata li vedi tutti e
tre che camminano verso la clinica dove tutto avverrà. Basta attraversare la
strada e prendere la prima a destra.
Sono
gli ultimi passi di un cammino che all’apparenza sembra di assoluta normalità.
Una
gita all’estero dalle parti di Zurigo, un percorso tra laghi, monti e verdi
valli, una passeggiata verso i luoghi del mistero, dove il confine fra le vita
e la morte, quasi non si distingue più.
2
marzo 2017 (Alfredo Laurano)
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