“TUTTO QUELLO CHE DIMENTICHI RITORNA A VOLARE NEL VENTO” **
Non c’era la lunga fila di auto blu, come qualche giorno fa all’Auditorium di Roma.
Non c’era la lunga fila di auto blu, come qualche giorno fa all’Auditorium di Roma.
Non c’erano giovani, ragazzi e famiglie. Ma
nel cinema di quartiere c’era tanta gente matura, brizzolata e consapevole che
non partecipava a un evento mondano, magari noioso ma quasi obbligatorio - come
appunto era stato per molti politici e pseudo-vip, invitati all’anteprima - ma che
aveva scelto, volontariamente, di esserci e di voler condividere un momento di
riflessione e di reciproca testimonianza.
Persone che, in buona parte, come il
sottoscritto, hanno vissuto quelle pagine di storia e di passioni proprio
“Quando c’era Berlinguer”, il film di Walter Veltroni che racconta e
ricostruisce, senza retorica e ridondanze, la vicenda umana e politica, le
sfide, i sogni e le capacità di quell’uomo timido e determinato, riservato e
carismatico.
Le immagini, i luoghi e i volti che
scorrono sullo schermo e che hanno accompagnato un stagione importante della
nostra vita suscitano viva emozione. Anche perché, forse, evocano quelle di una
politica bella, pulita e sostenuta da grandi idealità.
Senza morale, senza decenza e senza pudore,
non si può fare politica: così si pensava un tempo e così ci ricordava e ci
ammoniva Berlinguer.
Ma il prologo del film provoca sconforto,
irrita e fa un po’ incazzare: molti giovani studenti universitari, ridanciani e
divertiti, interrogati fuori campo su chi fosse Enrico Berlinguer, abbozzano
risposte ridicole, incredibili e surreali, senza provar vergogna o imbarazzo.
“Era un commissario…un francese…uno
scrittore…non l’ho studiato…è colpa della scuola….uno che ha fatto una guerra…
uno di destra… e così via. Pochissimi ne
sanno qualcosa.
Questo esordio di un Veltroni per niente
buonista, anzi, un po’ perfido e feroce, è l’innegabile dimostrazione di quanto
sia necessario raccontare la Storia e tener viva la conoscenza del passato - inteso
come prezioso patrimonio e non ridotto a ingombrante accumulo di scorie e
veleni fastidiosi - per aver piena coscienza del presente.
Che razza di Paese è quello che, in una
società che brucia in un lampo le tappe di una presunta civiltà e divora con
ansia bulimica le cose ed i valori,
smarrisce progressivamente la sua memoria collettiva e non la sa
custodire e trasmettere alle future generazioni?
Una possibile risposta, sotto forma di
sfumata e delicatissima metafora, arriva forse dalla straordinaria immagine di una
piazza San Giovanni ormai vuota, dove le copie dell’Unità danzano sull’erba e
sulle struggenti note del pianoforte di Danilo Rea.
Poi, è un po’ come sfogliare un grande
album di famiglia - senza però, o quasi, i momenti più privati e personali -
composto, con garbo e discrezione, da molto materiale inedito di repertorio, da
interviste, testimonianze, comizi e tribune politiche.
Ogni singolo fotogramma è un frammento di
realtà è offre, da una parte, l’occasione per approfondire la ricostruzione
storica, in un ventaglio di fatti ed argomenti. Dall’altra, quella di ritrovare
tanti momenti del proprio vissuto, attraverso una lettura più individuale, che
cattura sotto l’aspetto umano e passionale.
Nel mio caso, ad esempio, ho rivisto, e non
potrò mai dimenticare, la gioia, la festa di popolo e il bagno ideologico, fra
i canti di Bandiera Rossa e l’Internazionale, quando, stipati e accalcati a
migliaia, ci ritrovammo sotto il balcone di Botteghe Oscure, subito dopo i
risultati trionfali (35%) delle elezioni del 1976 - anche se all’epoca ero più vicino ai
dissidenti del Manifesto e votavo Democrazia Proletaria - e, soprattutto,
quello assai triste della piazza trasformata in un oceano di lacrime e bandiere
rosse, di gente commossa e disperata, unita come mai in un dolore comune e
lancinante: l’addio a Enrico Berlinguer, 1l 13 giugno 1984.
Io piangevo, arrampicato a un palo.
Scorre ancora il rullo di quei tempi
difficili, tra guerra fredda e blocchi militari contrapposti: il terrorismo e
la strategia della tensione, il referendum sul divorzio, il golpe in Cile e
l’uccisione di Allende, le stragi di Stato e gli attentati, il rapimento e
l’assassinio di Aldo Moro, che spezza un possibile equilibrio e colpisce anche
il cuore dello stesso leader del PCI e il progetto del compromesso storico
(Moro e Berlinguer avevano in mente un’idea di democrazia dell’alternanza,
senza rischiare l’esito cileno, ma furono fermati dalle BR e dai corpi deviati
e collusi dello Stato: ancora oggi resta
molto da capire e da spiegare), lo strappo con l’URSS, l’attentato in Bulgaria,
l’impossibile rapporto con Craxi, l’ultimo, drammatico comizio a Padova…
E’ proprio lì, in quelle immagini
strazianti, quando la voce gli si incrina, la fatica lo sommerge e la gente
urla “basta”, si coglie la forza, la coerenza e l’integrità di quel piccolo
grande uomo che ha segnato un epoca. Che, invece di fermarsi e arrendersi al
male, arriva a chiudere il comizio, con un piccolo sorriso.
Toccanti le testimonianze di Tortorella, di Macaluso, di Napolitano e del centenario, monumentale Ingrao.
I ricordi della figlia Bianca, del suo capo scorta Menichelli, che gli fu vicino fino all’ultimo, e di Silvio Finesso, l’operaio di Padova che racconta, commosso e provato, l’angoscia delle sue ultime ore.
Trentanni fa, l’11 giugno 1984, quando ci
lasciava Enrico Berlinguer, leader amatissimo e stimato anche dagli avversari,
qualcosa si rompeva nei cuori di milioni di italiani. E lasciava un
profondo vuoto.
Come scrive Natalia Ginzburg nella frase
che chiude il film: “Ognuno ha avuto con Berlinguer un suo rapporto personale,
anche se l’ha visto una volta sola nella vita”.
Ma moriva, di fatto, anche il Pci, che di
lì a poco avrebbe dovuto fare i conti con il crollo di quei regimi autoritari
che proprio Berlinguer aveva cercato di distinguere dalla via dei comunisti
italiani. Da quel momento, quella politica della
passione non c’è più.
Finisce il rigore, l’onestà e l'etica.
Le ideologie praticamente scompaiono e
lasciano il posto alla retorica del nuovo, alle volgari gesta di faccendieri e
politicanti senza scrupoli, alle recite di statisti improvvisati assetati di
potere.
Fioriscono e si moltiplicano partitelli che
coltivano i favori e il privilegio, i teatrini della menzogna e del consenso,
le manfrine da salotto e di facciata. Dilagano corruzione e ladrocinio, sotto
una valanga di indagati e di avvisi di garanzia. Per questo, larga parte di
popolo si disaffeziona dalla politica e odia e schifa i politici, in generale.
A dispetto di chi, come G. Pansa, da tempo
in pieno delirio revisionista, si sbalordisce per l’ondata di culto quasi
religioso che ha accolto il film: “una folla si è inchinata davanti all’ombra del
segretario del Pci come si usa fare con i santi!”, a parer mio, l’opera di
Veltroni non è un santino, ma il racconto fedele di un grande sogno, dedicato
ai giovani, e un atto d’amore e di riconoscenza verso l’uomo che
coraggiosamente lo ha inseguito.
Quando
c’era Berlinguer: un fitto intreccio di sensazioni, pensieri e ricordi, velati
da tanta commozione.
Due ore di catarsi purificatoria e di aria pulita da
respirare al cinema, come da tempo non siamo abituati a fare.
AlfredoLaurano
TUTTO QUEL CHE DIMENTICHI RITORNA A VOLARE NEL VENTO"
(da un canto Navajo, antico popolo indiano d’ America)
Se qualcosa non la teniamo nel cuore, il "vento" la porterà via..ed sarà persa per sempre, come se non fosse mai accaduta. Non ricordare di aver fatto una cosa è come non averla vissuta affatto. Dobbiamo tenere sempre nella nostra mente la testimonianza di tutte le cose belle che abbiamo vissuto, se vogliamo che il loro svolgimento sia valso a qualcosa...
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