giovedì 24 aprile 2014

L'ARTE DEL MONTARE

Montare: salire, andare sopra qualcosa.
Si può montare a cavallo, in carrozza, in treno, in macchina o di guardia;  o su una scala o sulle spalle di qualcuno; può montare la rabbia e il sangue alla testa; gli animali si montano quando si accoppiano; si può montare la panna o a neve le chiare dell’uovo o un caso, una polemica, un impianto, un mobile Ikea….
O si può montare ad arte. Montare una scena, un film.

Cioè, determinare una struttura narrativa e la continuità di un’azione, attraverso la composizione di varie inquadrature, girate anche in tempi e in luoghi diversi.
Raccontare con immagini, effetti e suoni in successione logica è il montaggio, la fase più creativa in cui prende corpo una storia cinematografica. Perché “il montaggio non è un aspetto, è l’aspetto del cinema”, diceva Orson Welles.

Da un punto di vista tecnico, la durata di quadri e sequenze dipende da elementi artistici, dalla sensibilità dell’autore e dalla valutazione della soglia di attenzione dello spettatore, il cui interesse non deve mai decrescere. Può variare da pochissimi a molti  secondi (uno è uguale a ventiquattro fotogrammi). Un’immagine che dura meno di tre fotogrammi è percepibile solo in via subliminale, non di coscienza.
Il numero delle inquadrature, i tempi, gli stacchi, i piani, i totali, i campi e controcampi, le dissolvenze determinano il ritmo  della narrazione, che viene percepito dallo spettatore, portato a creare un legame fra le inquadrature: disteso, vivace, lento, noioso, coinvolgente, deciso, dinamico, frenetico.
La cadenza è comunque legata all’ equilibrio, all’armonia generale, al particolare contenuto del film.

Esistono varie tipologie di montaggio.
Il montaggio in macchina, che segue un ordine di ripresa con tempi, luoghi, piani e pause prestabiliti; a priori, se segue fedelmente una sceneggiatura; a posteriori, con immagini d’archivio e di repertorio (si usa per alcuni spot, videoclip, documentari); in post produzione, che crea e compone il film; il piano sequenza, ovvero tecnica di ripresa consecutiva, composta da una sola inquadratura e da un solo piano, senza stacchi di macchina o di montaggio:la macchina da presa segue costantemente un personaggio o tutta un’azione.
                                            
Da un punto di vista artistico, è il montaggio, quindi, che dà ritmo e stile all’opera, anche in base alla sceneggiatura, alle scelte di regia e al genere del film (comico, romantico, storico, drammatico, d’azione ecc.) e che consente di cogliere il senso, lo spazio e i tempi della vicenda rappresentata.
                                            
Nel montaggio classico, sulla base degli elementi propri del linguaggio cinematografico (inquadratura, scena, sequenza), teorizzati da Griffith, il regista russo Lev Kulesov compì nel 1920 un importante esperimento (poi definito effetto Kulesov):  in fase di montaggio, alternò il primo piano di un attore (Ivan Mousjoukine) 
con riprese di una tavola imbandita, di un cadavere e di un bambino e, sebbene l'espressione del viso dell'attore non cambiasse mai, il pubblico percepiva, e gli attribuiva, differenti stati d'animo: fame, paura, tenerezza.

Questa dimostrazione permise poco dopo a Ejzenstein, pioniere e teorico di quell’arte, di aggiungere una dimensione nuova a tale tecnica: capì che attraverso la correlazione  di due diverse immagini in sequenza, si ottenevano forti significati allegorici che travalicavano il contenuto delle singole inquadrature.

Nasceva così il montaggio delle attrazioni, figura retorica basata sulla similitudine simbolica di fatti accostati per analogia.
Uno strumento interpretativo fondamentale per stimolare la fantasia e l’emotività dello spettatore e per catturare l’attenzione del grande pubblico, spinto alla riflessione intellettuale, come nella vita reale.

Esempio evidente è la sequenza finale di “Sciopero!” (1925), in cui, alle immagini degli operai scioperanti che cadono sotto gli spari della milizia, Ejzenštein alterna scene che mostrano dei macellai uccidere un bue.

Su queste stesse tecniche e agli stessi fini, più o meno, venticinque anni fa nasceva Blob di Giusti e Enrico Ghezzi: un collage satirico di montaggio occasionale e irriverente.
Un apologo simbolico e allusivo che fa dialogare le immagini che, al di là del loro stretto contenuto, esprimono un nuovo senso e un significato più profondo.

Spezzoni video con audio o muti, frammenti di risse e siparietti televisivi, dichiarazioni, sparate, schegge, errori tecnici sezionati, rimontati e abbinati, in rapida sequenza e in assoluta libertà, da una squadra di estrosi “montautori”, per svelare, criticare, denunciare e per prendersi gioco di tutto ciò che passa in TV. 
   
La prima  puntata andò in onda il 17 aprile 1989.
Soprattutto nei primi tempi, molti si ritenevano offesi dagli audaci accostamenti fatti a danno della propria immagine. Altri, invece, si auto-segnalavano per apparire e per non essere ignorati. Clienti affezionati e ricorrenti: Fede, Sgarbi, Funari, Ferrara, la Parietti, la Clerici, Berlusconi e politici vari. Di tanti folli e stravaganti personaggi, Blob ha fatto la macchietta e anche la fortuna.

Un programma, innovativo e scomodo per qualcuno, che ha un senso proprio perché non ha un filo conduttore, come aveva intuito subito Fellini.

Scrive Aldo Grasso: “Blob è una sorta di rubrica di critica televisiva costruita solo con le immagini: il punto di vista critico non viene esplicitato, ma in qualche modo sollecitato da un taglio ironico”.

E’ come il blob del film Fluido mortale - diceva Guglielmi, allora direttore di Raitre - una massa priva di forma e consistenza,  che invade il mondo, soffoca gli spazi vitali e rappresenta il sistema gelatinoso in cui si sta trasformando non solo la televisione, ma tutta la cultura italiana.


23 aprile 2014                      (Alfredo Laurano, detto Mezzoframe)

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