Montare: salire, andare sopra qualcosa.
Si può montare a cavallo, in carrozza, in treno, in macchina
o di guardia; o su una scala o sulle
spalle di qualcuno; può montare la rabbia e il sangue alla testa; gli animali
si montano quando si accoppiano; si può montare la panna o a neve le chiare
dell’uovo o un caso, una polemica, un impianto, un mobile Ikea….
O si può montare ad arte. Montare una scena, un film.
Cioè, determinare una struttura narrativa e la continuità di
un’azione, attraverso la composizione di varie inquadrature, girate anche in
tempi e in luoghi diversi.
Raccontare con immagini, effetti e suoni in successione
logica è il montaggio, la fase più creativa in cui prende corpo una storia cinematografica.
Perché “il montaggio non è un aspetto, è l’aspetto del cinema”, diceva Orson
Welles.
Da un punto di vista tecnico, la durata di quadri e sequenze
dipende da elementi artistici, dalla sensibilità dell’autore e dalla
valutazione della soglia di attenzione dello spettatore, il cui interesse non
deve mai decrescere. Può variare da pochissimi a molti secondi (uno è uguale a ventiquattro
fotogrammi). Un’immagine che dura meno di tre fotogrammi è percepibile solo in
via subliminale, non di coscienza.
Il numero delle inquadrature, i tempi, gli stacchi, i piani,
i totali, i campi e controcampi, le dissolvenze determinano il ritmo della narrazione, che viene percepito dallo
spettatore, portato a creare un legame fra le inquadrature: disteso, vivace, lento,
noioso, coinvolgente, deciso, dinamico, frenetico.
La cadenza è comunque legata all’ equilibrio, all’armonia
generale, al particolare contenuto del film.
Esistono varie tipologie di montaggio.
Il montaggio in macchina, che segue un ordine di ripresa con
tempi, luoghi, piani e pause prestabiliti; a priori, se segue fedelmente una sceneggiatura;
a posteriori, con immagini d’archivio e di repertorio (si usa per alcuni spot, videoclip,
documentari); in post produzione, che crea e compone il film; il piano sequenza,
ovvero tecnica di ripresa consecutiva, composta da una sola inquadratura e da
un solo piano, senza stacchi di macchina o di montaggio:la macchina da presa
segue costantemente un personaggio o tutta un’azione.
Da un punto di vista artistico, è il montaggio, quindi, che
dà ritmo e stile all’opera, anche in base alla sceneggiatura, alle scelte di
regia e al genere del film (comico, romantico, storico, drammatico, d’azione
ecc.) e che consente di cogliere il senso, lo spazio e i tempi della vicenda
rappresentata.
Nel montaggio classico, sulla base degli elementi propri del
linguaggio cinematografico (inquadratura, scena, sequenza),
teorizzati da Griffith, il regista russo Lev Kulesov compì nel 1920 un
importante esperimento (poi definito effetto Kulesov): in fase di montaggio,
alternò il primo piano di un attore (Ivan Mousjoukine)
con riprese
di una tavola imbandita, di un cadavere e di un bambino e, sebbene
l'espressione del viso dell'attore non cambiasse mai, il pubblico percepiva, e
gli attribuiva, differenti stati d'animo: fame, paura, tenerezza.
Questa dimostrazione permise poco dopo a Ejzenstein, pioniere e teorico di
quell’arte, di aggiungere una dimensione nuova a tale tecnica: capì che attraverso
la correlazione di due diverse immagini
in sequenza, si ottenevano forti significati allegorici che travalicavano il contenuto
delle singole inquadrature.
Nasceva così il montaggio delle attrazioni, figura retorica basata
sulla similitudine simbolica di fatti accostati per analogia.
Uno strumento interpretativo fondamentale per stimolare la
fantasia e l’emotività dello spettatore e per catturare l’attenzione del grande
pubblico, spinto alla riflessione intellettuale, come nella vita reale.
Esempio evidente è la sequenza
finale di “Sciopero!” (1925), in cui, alle immagini degli operai
scioperanti che cadono sotto gli spari della milizia, Ejzenštein alterna scene
che mostrano dei macellai uccidere un bue.
Su queste stesse tecniche e agli stessi fini, più o meno,
venticinque anni fa nasceva Blob di Giusti e Enrico Ghezzi: un collage satirico
di montaggio occasionale e irriverente.
Un apologo simbolico e allusivo che fa dialogare le immagini
che, al di là del loro stretto contenuto, esprimono un nuovo senso e un significato
più profondo.
La prima puntata andò
in onda il 17 aprile 1989.
Soprattutto nei primi tempi, molti si ritenevano offesi dagli
audaci accostamenti fatti a danno della propria immagine. Altri, invece, si auto-segnalavano
per apparire e per non essere ignorati. Clienti affezionati e ricorrenti: Fede,
Sgarbi, Funari, Ferrara, la Parietti, la Clerici, Berlusconi e politici vari.
Di tanti folli e stravaganti personaggi, Blob ha fatto la macchietta e anche la
fortuna.
Un programma, innovativo e scomodo per qualcuno, che ha un
senso proprio perché non ha un filo conduttore, come aveva intuito subito Fellini.
Scrive Aldo Grasso: “Blob è una sorta di rubrica di critica
televisiva costruita solo con le immagini: il punto di vista critico non viene
esplicitato, ma in qualche modo sollecitato da un taglio ironico”.
E’ come il blob del film
Fluido mortale - diceva Guglielmi, allora direttore di Raitre - una massa priva
di forma e consistenza, che invade il
mondo, soffoca gli spazi vitali e rappresenta il sistema
gelatinoso in cui si sta trasformando non solo la televisione, ma tutta la
cultura italiana.
23 aprile 2014 (Alfredo Laurano, detto Mezzoframe)
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