martedì 8 aprile 2014

A CUCCUMELLA!

Ci prendiamo un caffè…Ti posso offrire un caffè? Quante volte pronunciamo o sentiamo  queste frasi tutti i giorni. Poi, c’è la pausa caffè, quando si lavora e, soprattutto, il primo caffè della mattina, appena svegli. Pochi gli italiani che si sottraggono a questa liturgia quotidiana per cominciare bene la giornata.

Quello della tazzina vogliosa, calda e profumata, oltre ad essere un piacere, come ci ricorda ossessivamente la pubblicità,  è un rito profondamente nazionale, espressione di una cultura tipica del nostro Paese. All’estero, riuscire a gustare un espresso secondo i nostri gusti e la nostra tradizione è infatti impresa più rara che difficile.

E’ un’abitudine consolidata in casa, fuori ed al lavoro, utile a creare un momento di distensione o di semplice soddisfazione. Ogni occasione è buona per l'ennesimo caffè: fissa o completa un incontro, favorisce il dialogo, migliora i rapporti, stimola e gratifica.
Dolce, amaro, lungo, ristretto, corretto, macchiato caldo, macchiato freddo, in tazza calda, al vetro, schiumato, marocchino… C’è n’è per tutti i gusti, per la gioia di baristi e camerieri!

Il piacere sensuale che accompagna questa bevanda così amata e che corrobora e rinfranca, nasce nell’uso popolare, assai prima dell’ormai universale “Moka”, con la storica caffettiera napoletana a doppio bricco che si capovolgeva dopo la bollitura dell’acqua: la cosiddetta “cuccumella”, inventata a inizio ‘800. Ancora oggi è oggetto di culto, ricercata e ambita dai puristi del caffè.

Mitico e indimenticabile resta il monologo di Edoardo De Filippo che, nella commedia  “Questi fantasmi”, consiglia al suo immaginario dirimpettaio l’uso di un “coppetiello” di carta cerata da apporre sul beccuccio della macchinetta, per non perdere l’aroma del caffè.
Ricordiamoci anche che, fino a qualche decennio fa, la frequentazione dei bar non era così diffusa come oggi e il caffè si consumava, prevalentemente a casa. Percìò era una cerimonia sacra e irrinunciabile.


Ma ieri sera, il bravo Bernardo Iovene di Report, complice l’inflessibile Gabanelli, ci ha smontato questo bel giocattolino e ha quasi demolito il totem  e la voglia di quei grani tostati e macinati che diventano caffè. Attraverso prove, testimonianze, documenti, interviste e il rigore di sempre, si è chiesto che miscele acquistiamo al supermercato e cosa beviamo al bar quando chiediamo un espresso.

Molto spesso, la maggior parte dei baristi, dal nord al sud, non attua il “purge” (spurgo, pulizia) - operazione necessaria per avere acqua pulita ogni volta che si prepara un nuovo espresso - e lo fanno invece ai clienti con acqua sporca e piena di residui dei tantissimi caffè precedenti, stracotti centinaia di volte. I filtri, i portafiltri e le doccette non vengono quasi mai puliti, se non a fine giornata.
Farlo con frequenza, non è solo una questione igienica, ma una necessità di funzionamento, perché se i vari componenti sono sporchi, le macchine lavorano male e si ottiene un prodotto  scadente.

In cambio della fornitura esclusiva, i torrefattori e grandi aziende come Lavazza, Kimbo e Illy, che finanziano anche i nuovi bar, danno in comodato d’uso gratuito la macchina, i macinini e la lavastoviglie e, a volte, perfino gli arredi.

Quasi tutti, anche nelle confezioni casalinghe, fanno abuso della “robusta”: una qualità che costa la metà di quella “arabica” ed ha aromi legnosi, se proviene dal Vietnam, e di terra, se di origine Africana.  

Con gli assaggiatori autorizzati dell’Associazione Europea Scae, il valente segugio di Report ha girato parecchi bar italiani,  tra cui i prestigiosi Gambrinus di Napoli e il Grco di Roma, per valutarne fragranze, aromi, magagne e requisiti.
Conclusioni: molto spesso cultori e consumatori italiani bevono, a loro insaputa, un caffè di scarso pregio o di pessimo gusto. A volte amaro, biscottato e astringente. O che sa di bruciato, di muffa e con sentori di paglia, di gomma o di terra.

Troppe volte lo abbiamo verificato anche noi stessi in locali che non conosciamo e che proviamo per la prima, e ultima, volta: una broda piatta, acquosa, con schiumetta, ma senza crema e senza corpo. Come certi pseudo vini, nati dalla sciacquatura delle botti.
E’ quella specie di caffè di cui diciamo: “lascia la bocca cattiva!”
Come quella che la pur bella e puntuale inchiesta ci ha donato.

 8 aprile 2014                                                          (Alfredo Laurano)



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