Ci prendiamo un caffè…Ti posso offrire un caffè? Quante
volte pronunciamo o sentiamo queste
frasi tutti i giorni. Poi, c’è la pausa caffè, quando si lavora e, soprattutto,
il primo caffè della mattina, appena svegli. Pochi gli italiani che si
sottraggono a questa liturgia quotidiana per cominciare bene la giornata.
Quello della tazzina vogliosa, calda e profumata, oltre ad
essere un piacere, come ci ricorda ossessivamente la pubblicità, è un rito profondamente nazionale, espressione
di una cultura tipica del nostro Paese. All’estero, riuscire a gustare un
espresso secondo i nostri gusti e la nostra tradizione è infatti impresa più
rara che difficile.
E’ un’abitudine consolidata in casa, fuori ed al lavoro,
utile a creare un momento di distensione o di semplice soddisfazione. Ogni occasione è buona per l'ennesimo caffè: fissa o completa un incontro, favorisce il dialogo, migliora i rapporti, stimola e gratifica.
Dolce, amaro, lungo, ristretto, corretto, macchiato caldo,
macchiato freddo, in tazza calda, al vetro, schiumato, marocchino… C’è n’è per
tutti i gusti, per la gioia di baristi e camerieri!
Il piacere sensuale che accompagna questa bevanda così amata
e che corrobora e rinfranca, nasce nell’uso popolare, assai prima dell’ormai universale
“Moka”, con la storica caffettiera napoletana a doppio bricco che si
capovolgeva dopo la bollitura dell’acqua: la cosiddetta “cuccumella”, inventata
a inizio ‘800. Ancora oggi è oggetto di culto, ricercata e ambita dai puristi
del caffè.
Mitico e indimenticabile resta il monologo di Edoardo De
Filippo che, nella commedia “Questi fantasmi”,
consiglia al suo immaginario dirimpettaio l’uso di un “coppetiello” di carta
cerata da apporre sul beccuccio della macchinetta, per non perdere l’aroma del
caffè.
Ricordiamoci anche che, fino a qualche
decennio fa, la frequentazione dei bar non era così diffusa come oggi e il
caffè si consumava, prevalentemente a casa. Percìò era una cerimonia sacra e
irrinunciabile.
Ma ieri sera, il bravo Bernardo Iovene di Report, complice l’inflessibile Gabanelli, ci ha smontato questo bel giocattolino e ha quasi demolito il totem e la voglia di quei grani tostati e macinati che diventano caffè. Attraverso prove, testimonianze, documenti, interviste e il rigore di sempre, si è chiesto che miscele acquistiamo al supermercato e cosa beviamo al bar quando chiediamo un espresso.
Molto spesso, la maggior parte dei baristi, dal nord al sud,
non attua il “purge” (spurgo, pulizia) - operazione necessaria per avere acqua
pulita ogni volta che si prepara un nuovo espresso - e lo fanno invece ai
clienti con acqua sporca e piena di residui dei tantissimi caffè precedenti,
stracotti centinaia di volte. I filtri, i portafiltri e le doccette non vengono
quasi mai puliti, se non a fine giornata.
Farlo con frequenza, non è solo una questione igienica, ma una necessità
di funzionamento, perché se i vari componenti sono sporchi, le macchine lavorano
male e si ottiene un prodotto scadente.
In cambio della fornitura esclusiva, i torrefattori e grandi
aziende come Lavazza, Kimbo e Illy, che finanziano anche i nuovi bar, danno in
comodato d’uso gratuito la macchina, i macinini e la lavastoviglie e, a volte, perfino
gli arredi.
Quasi tutti, anche nelle confezioni casalinghe, fanno abuso
della “robusta”: una qualità che costa la metà di quella “arabica” ed ha aromi
legnosi, se proviene dal Vietnam, e di terra, se di origine Africana.
Con gli assaggiatori autorizzati dell’Associazione Europea
Scae, il valente segugio di Report ha girato parecchi bar italiani, tra cui i prestigiosi Gambrinus di Napoli e il Grco di Roma, per valutarne fragranze, aromi, magagne e
requisiti.
Conclusioni: molto spesso cultori e consumatori italiani bevono,
a loro insaputa, un caffè di scarso pregio o di pessimo gusto. A volte amaro,
biscottato e astringente. O che sa di bruciato, di muffa e con sentori di
paglia, di gomma o di terra.
Troppe volte lo abbiamo verificato anche noi stessi in
locali che non conosciamo e che proviamo per la prima, e ultima, volta: una
broda piatta, acquosa, con schiumetta, ma senza crema e senza corpo. Come certi
pseudo vini, nati dalla sciacquatura delle botti.
E’ quella specie di caffè di cui diciamo: “lascia la bocca
cattiva!”
Come quella che la pur bella e puntuale inchiesta ci ha
donato.
8 aprile 2014
(Alfredo Laurano)
Nessun commento:
Posta un commento