Prima, l’hanno costretto ad alzare i tacchetti e a smettere
di giocare.
Poi, dopo la comparsata cialtrona e umiliante da virtuale
pseudo dirigente - incravattato, ma senza incarico - l’hanno costretto a levare
le tende, a togliere il disturbo, in via definitiva. In questa veste, peraltro,
lo hanno solo e semplicemente esibito e sfruttato come un sacro trofeo, da
portare in giro sugli spalti e nella Storia, per fare selfie e foto ricordo con
chiunque.
Ma anche, come ottavo re della città caput mundi e di una
squadra mezza gialla e mezza rossa.
Come rappresentate terreno di Eupalla, "divinità
benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie dei bipedi" (G.
Brera).
Come simbolo totemico di una storica comunità di
fedelissimi calciofili integralisti, privo, però, di salutari effetti
taumaturgici.
Come specchietto internazionale di richiamo di folle e
sognatori.
Come bandiera e mito popolare.
E per finire, come rara, preziosa e introvabile figurina
Panini di uomo immagine, da stadio, da sfilata o da discoteca, senza però, e
per fortuna, farlo ballare sul cubo o al palo della lap dance. Solo qualche
fugace inquadratura televisiva per far vedere che c’era ed esisteva ancora.
Ma, per il resto, per il ruolo, non è mai contato niente, non
ha mai deciso niente, non ha mai potuto scegliere niente. Nessuno lo ha mai
interpellato, né gli ha chiesto un minimo parere.
E ieri, in una memorabile conferenza stampa, “il ragazzo di
Porta Metronia, che ha segnato un’epoca”, l’ha detto e ribadito, controllando
l’evidente emozione, con grandissima sincerità: deciso, chiaro, diretto,
determinato, attento e pungente, senza mezze parole, paraventi dietrologici e
ridondanze retoriche.
''Mi dimetto non per colpa mia, il club mi ha tenuto fuori da
tutto. È stato doveroso prendere questa decisione: non ho mai avuto la
possibilità operativa di poter lavorare sull'area tecnica con la Roma, anzi.
Sono sempre stato un peso per questa società, sia da calciatore che da
dirigente, mi hanno considerato una figura ingombrante.
Ripulire la Roma dai romani è stato fin dall'inizio
l’obiettivo della proprietà americana per sradicare la romanità.
Con Baldini (suo nemico storico) non c'è mai stato e mai ci sarà un
rapporto, Pallotta non l'ho mai sentito in due anni. Il futuro? Ho ricevuto
offerte da società italiane.
Era meglio morire che vivere un giorno così "
Un addio veramente amaro, fra ricordi, nostalgia, sentimenti
veraci e genuini, alternati a confessioni puntuali e velenose, a momenti di
ironia e sarcasmo. Come nella sua indole, come “da Totti” autentico, senza peli
sulla lingua.
Il quadro che dipinge è desolante: non esita a definire i
dirigenti incompetenti e arroganti, spiegando che in tanti non accettavano più
la sua presenza. "Dentro Trigoria ci sono persone che fanno il male
della Roma. Pallotta, che non ci sta mai, tante cose non le sa e si fida sempre
di questi personaggi.”
La storia d'amore tra Totti e la Roma finisce, dunque, oggi
dopo trent'anni di passione, ma ha già scatenato un terremoto che lascerà il
segno.
I tifosi, delusi e insoddisfatti dalle scelte societarie e
anche di un mercato sempre fallimentare, potrebbero boicottare lo stadio e la
campagna abbonamenti.
Quello di Totti non sarà forse un addio ma un arrivederci,
perché sembra impossibile vederlo fuori dalla Roma. Certamente con un’altra
proprietà, perché la squadra, anche grazie a lui, è amata e stimata anche in
tante parti del mondo e molti la vorrebbero prendere.
Intanto, il pupo nostro, il capitano, il genio, il dirigente
lascia perché ha capito di non essere apprezzato. Ma non vuol perdere anche la
dignità.
Un mito non se lo può permettere.
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