Tre sentenze, in questi giorni, hanno fatto
giustizia in tre brutali casi di omicidio.
Il giovane assassino di Noemi Durini, uccisa
nel settembre dello scorso anno nel Leccese, è stato condannato, con rito
abbreviato, per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dai futili
motivi, soppressione di cadavere e porto d'arma. Il corpo della ragazza,
abbandonata ancora viva, fu scoperto solo dopo dieci giorni sotto un cumulo di
pietre in una campagna di Castrignano del Capo.
La pena è di 18 anni e 8 mesi di carcere.
"Non potrò mai perdonarlo, bisogna dargli l'ergastolo", aveva detto Imma Rizzo, la madre di Noemi Durini prima della sentenza. E
la pubblica opinione è assolutamente d’accordo.
A Mestre, è stata pronunciata la sentenza
d’Appello per il caso di Isabella Noventa, I giudici hanno confermato quella di
primo grado: i fratelli Sorgato sono stati condannati a trent’anni, mentre la
loro coimputata Manuela Cacco, “la tabaccaia”, ha ricevuto 16 anni e 10 mesi.
Resta il fatto che del corpo della povera
impiegata padovana, scomparsa nel gennaio 2016, continua a non esserci traccia.
Sembra che la donna sia completamente sparita nel nulla e i supporti della
tecnologia utilizzati in oltre due anni e mezzo di ricerche sono risultati del
tutto vani.
Anche questa sentenza, come quella di primo
grado, con rito abbreviato, appare ai più piuttosto mite, visto che gli
assassini non hanno nemmeno rivelato dove abbiamo buttato il corpo della
vittima e sono responsabili anche della morte del poliziotto sub, annegato nel
corso delle ricerche nel fiume Brenta.
Se nessuno ha dubbi su questi casi che hanno
riempito le recenti cronache, qualcuno ne ha su quello di ieri sera, dove la
Cassazione ha confermato l'ergastolo per Massimo Bossetti, condannato in primo
e secondo grado per l'omicidio di Yara Gambirasio, la giovane ginnasta di 13
anni il cui corpo venne trovato il 26 febbraio 2011 in un campo a Chignolo
d'Isola, nella Bergamasca, a tre mesi dalla scomparsa.
Per la giustizia italiana, dunque, Bossetti,
carpentiere di Mapello, 48 anni, in carcere dal 16 giugno del 2014, è, in via
definitiva, l’assassino di Yara. La sua colpevolezza è stata provata "al di là di ogni ragionevole dubbio.
Bossetti non ha avuto nessun moto di pietà e ha lasciato morire Yara in quel
campo”.
La difesa, con gli avvocati Salvagni e
Camporini, aveva presentato ricorso contro la sentenza pronunciata dalla corte
d'assise d'appello di Brescia del luglio 2017, con 23 motivi di ricorso, in 600
pagine, molti dei quali riguardavano la formazione della prova principale, il
dna.
Sarebbe stato condannato sulla base di questa
prova, ottenuta, però, fuori da un contraddittorio, caratterizzata da un numero
incredibile di anomalie. “Si tratta di
una prova in se stessa contraddittoria, su cui la difesa non ha potuto fare
alcuna perizia”.
Quello che tutti si chiedono è perché, pur
essendoci ancora materiale biologico, come riferito degli stessi consulenti del
pm, per effettuare una nuova perizia genetica, questa possibilità è stata ostinatamente
negata.
Tre le altre anomalie: le fibre rinvenute
sulla vittima sarebbero compatibili con quelle del furgone di Bossetti, ma
anche con migliaia di furgoni uguali.
Perché il passaggio dello stesso mezzo, ripreso
dalle telecamere, non è stato ripetuto con quello dell’imputato? Perché
qualcuno, intercettato in trattoria, avrebbe parlato del rapimento di Yara, molto
prima che si sapesse ufficialmente? Perché non stati indagati altri possibili
responsabili?
Alla base, un impianto accusatorio senza precedenti
in Italia, per il quale sono stati analizzati oltre 18.000 profili genetici,
con una spesa di milioni di euro.
E, di conseguenza, il circo mediatico-giudiziario ha fatto la sua parte.
E, di conseguenza, il circo mediatico-giudiziario ha fatto la sua parte.
Un colpevole, un mostro doveva
necessariamente esserci.
La vita della famiglia Bossetti è stata
scandagliata senza pietà, le donne di casa trattate come poco di buono, il
padre, gravemente malato, fino alla morte, schernito come un povero becco. Del
condannato sappiamo tutto, della sua abbronzatura, delle sue abitudini
sessuali, del rapporto con la moglie, con la sorella gemella e con la madre,
morta pochi mesi fa.
Ma non sappiamo come e perché avrebbe rapito e
ucciso Yara.
E, soprattutto, perché si sia a lungo
ostinato a chiedere quella seconda perizia che, nel caso di conferma, lo
avrebbe definitivamente e totalmente inchiodato alle sue responsabilità.
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