“Che cosa devo fare - scrive Francesco nel suo
”Capitano” - per essere degno di un amore così folle, così
assoluto, così esagerato? Io non l’ho mai chiesto, non per rifiutare le
responsabilità che comporta, a quelle non sono mai sfuggito. No, non l’ho mai
chiesto perché sono timido.”
Era timido, Totti, da bambino e lo è anche
adesso, imbarazzato davanti alle infinite manifestazioni d’affetto che lo
lusingano oltre ogni limite. Succede ancora oggi, dopo il forzato addio al
prato verde, quando entra in uno stadio, in un aeroporto, in un albergo, in un
negozio: tutti gli vanno incontro, per un autografo, per un selfie, per
abbracciarlo.
È sempre stato così, praticamente dal primo
giorno.
“Romano e romanista, aggiunge, vengo considerato uno di famiglia. Tutti i tifosi mi vorrebbero
invitare alla comunione dei figli. Ecco, questa forse è la vera differenza con
gli altri calciatori che di solito sono idoli, modelli, poster in una
cameretta. Gli idoli passano, i poster si strappano, figli e fratelli, invece,
non tradiscono mai.”
Significativo l’episodio che apre la biografia,
scritta con Paolo Condò.
“Èccome, èccome, prima io”, urla il giovane detenuto, Capita’, io dovevo usci’ ’na settimana fa,
finito, pena scontata. Però, quanno ho saputo che venivi, me so’ detto: “E
quanno me ricapita l’occasione de famme ’na foto cor capitano in posa? Mai,
campassi cent’anni…”. Allora ho chiesto al direttore e l’ho implorato de resta’
fino a oggi. Ma siccome er regolamento nun lo prevede, me so’ giocato er jolly:
“Guardi, se lei me fa usci’ io faccio ’na cazzata pe’ torna’ dentro subbito,
nun conviene a nessuno dei due”, e lui ha capito.”
Sette giorni in galera gratis, solo per farsi
una foto con il “Capitano”.
Il libro, presentato al Colosseo (e dove se
no?), oltre a tanti altri aneddoti, racconta il Totti di tutti, il Totti figlio
di quartiere, orgoglio di una città con cui vive in simbiosi, ma nella quale,
presto, non potrà più passeggiare come gli altri.
È come rivedere un lungo filmato delle teche
Rai: un emozionante viaggio nel mondo del calcio “ai tempi di Totti”, che scava
nella sua intimità, che sottolinea soprattutto gli aspetti umani e personali di
un campione fatto in casa e cresciuto in strada a pane e pallone.
Che racconta la sua infanzia, la saggezza di mamma
Fiorella, le sue paure di bambino, la pappa reale per favorire lo sviluppo, la
sua poca voglia di parlare, i compagni di Porta Metronia, i giochi, le liti e i
primi calci a quella sfera magica che lo consacrerà fenomeno.
La fortuna, dicono le cronache o le leggende,
lo avrebbe baciato in fronte, quando, in prima elementare, l’intera sua scuola
viene ammessa a un’udienza papale in Vaticano, nella celebre sala Nervi.
La mamma, con in braccio il pargolo, spingendo e sgomitando, riesce a guadagnare la transenna, per trovarsi a un passo da Giovanni Paolo II che, dopo averla superata, torna indietro e bacia il biondo Francesco.
È il segno del destino. L’investitura ufficiale del campione.
La mamma, con in braccio il pargolo, spingendo e sgomitando, riesce a guadagnare la transenna, per trovarsi a un passo da Giovanni Paolo II che, dopo averla superata, torna indietro e bacia il biondo Francesco.
È il segno del destino. L’investitura ufficiale del campione.
Riservato, ingenuo e vergognoso, quel pargolo
è cresciuto, non senza qualche difficoltà (molte meno, però, di quante ne abbia
patite Messi), sognando di fare il benzinaio, perché ammirato dal fascio di
banconote arrotolate nelle sue tasche, che gli sembrava tutta la ricchezza del
mondo, con il calore di una famiglia sana che lo seguiva sempre, fra i primi
amori estivi di Tropea e Torvaianica, fino a rivelare il suo talento e a subire
il furto di tre zerbini a settimana (i tappetini di Totti), reliquie o souvenir
di tifosi feticisti, davanti alla porta di casa, dovuta poi lasciare perché
sempre sotto assedio.
Correre, calciare, lottare, cadere, colpire:
come il Gladiatore suo film mito, come quello tatuato sul suo braccio.
Sono tanti i capitoli e gli episodi ricordati
con molta intensità e precisione.
Le sue prime squadre, la
Fortitudo e la Lodigiani, l’arrivo a Trigoria, la Roma Primavera, il debutto in
serie A, il primo ricco assegno inaspettato, le figurine dei giocatori della
Lazio, attaccate sull’album a testa in giù, “perché non volevo nemmeno vederli
in faccia”, la corte del Milan e del Real Madrid, lo scudetto e la relativa
festa, i suoi allenatori: da Boskov a Mazzone, da Zeman a Carlos Bianchi, da
Capello a Luis Enrique, da Garcia a Spalletti uno e due. La nazionale “amante
clandestina”, con Zoff e Lippi, la coppa del mondo, i tanti infortuni e la rottura
del perone che mise in pericolo la sua partecipazione al mondiale 2006. I
rapporti con l’amico, generoso e matto, Cassano, il “fantantonio”, l’incontro e
il matrimonio con Ilary, i figli e tanto altro ancora.
Fino al quel 28 maggio del 2017,
il giorno dell’addio al calcio giocato, a 41 anni, che ha fatto piangere Roma
giallorossa e mezza Italia, davanti alla TV.
Quanto amore in quello stadio. Quanti diversi e contrastanti sentimenti hanno affollato e toccato quegli spalti, pieni di gente assai provata.
Quanta commozione, quanta passione, quanta
sofferenza hanno segnato quei volti senza età, sopraffatti dalla tristezza e
dal dolore.
Quante lacrime di tifosi, amici e compagni
hanno trasformato l’erboso Olimpico in una piscina, in un mare di emozioni che potevano
toccarsi, stringersi e scambiarsi.
Quanti cartelli, striscioni, slogan, numeri
dieci, hanno colorato l’aria, lo sfondo e il colpo d’occhio di quel teatro
popolare e vero che si chiama calcio.
Forse perché non siamo più abituati a tanto
spettacolo genuino di umanità.
Il saluto a Totti, la sua toccante lettera ai
tifosi - sofferta, preparata e letta con autentica sofferenza, come lo stesso
libro ricorda e racconta - sono stati un vibrante momento di partecipazione
collettiva, una manifestazione di amore immenso, reale e spontaneo. Un tributo
all’imperatore che ha fatto sognare più generazioni, con le sue gesta e i suoi
tanti momenti d’arte e di magia.
Perché un campione è di tutti,
perché diventa simbolo di genialità universale, al di là delle singole
bandiere. E lui, come pochi altri, lo è stato dopo 25 stagioni, dopo circa
ottocento partite e dopo aver segnato oltre 300 reti.
Del “capitano”, oggi dirigente,
non svanirà la sua bella immagine di calcio pulito, di bravo ragazzo generoso,
di icona popolare e di modello, per le emozioni che ha saputo regalare.
E queste pagine, velate di
malinconia, tra mille suggestioni e punte di ironia, hanno il merito di
raccontare la passione e i sentimenti, di tramandare il mito e narrare una
leggenda di grande bellezza.
Non a caso nella prima sequenza
dell’omonimo film di Sorrentino, compare il suo nome su un giornale, in mano ad
un turista. (Alfredo Laurano)
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