Quarant’anni fa, il 9 maggio 1978, veniva
ritrovato il cadavere di Aldo Moro in via Caetani, a Roma, ucciso dalle Brigate
rosse dopo 55 giorni di prigionia. Stampa e Tv, in questi giorni, hanno
giustamente dedicato ampi spazi per ricordarlo con film, letture, articoli,
ricostruzioni, documentari, dibattiti. Particolarmente interessanti la fiction
“Moro il professore” e il programma “M” (prima parte) di Santoro, fra docufilm,
testimonianze e momenti di teatro.
Ma quel 9 maggio fu anche il giorno della morte
di Peppino Impastato, il trentenne giornalista e attivista siciliano - ucciso
dalla mafia, a Cinisi, per ordine del boss Gaetano Badalamenti - che ebbe anche
il torto di farsi ammazzare proprio il giorno del ritrovamento del corpo di
Moro e, quindi, quasi ignorato dalla grande macchina mediatica, che oscurò
completamente la notizia di quell’omicidio di provincia.
La Sette, con Andrea Purgatori, ha mandato in
onda il film di Marco T. Giordana, “I cento passi”, che, nel 2000, ne fece
conoscere la drammatica vicenda.
Il corpo del giovane Peppino, che era
candidato alle elezioni comunali con Democrazia Proletaria, fu fatto saltare
con del tritolo sui binari della ferrovia Palermo-Trapani, per far credere che
si trattasse di un attentato terroristico suicida.
Fra depistaggi, responsabilità della stampa,
delle forze dell’ordine, archiviazioni e riaperture del caso, accompagnate da
petizioni popolari, solo la determinazione della madre Felicia, e del fratello
Giovanni - oltre al prezioso lavoro del giudice Rocco Chinnici, assassinato
anch’egli dalla mafia nel 1983 - fecero emergere nei lunghi 24 anni la matrice
mafiosa dell’omicidio. Fino alla verità e alle condanne del 2002 dell’esecutore
Palazzolo, a 30 anni, e del mandante Badalamenti, all’ergastolo, entrambi poi
morti in carcere.
Era un destino forse segnato quello di
Peppino Impastato, nato a Cinisi in una famiglia di mafia. Un suo zio era un
boss di prima grandezza, suo padre, Luigi, era amico del numero uno di Cosa Nostra,
Tano Badalamenti, che fu poi il suo assassino.
Ma il ribelle, militante sinistra cambiò la
sua sorte: fin da ragazzo prese le distanze da quel mondo di mafiosi e cominciò
a denunciare il potere delle cosche e il clima di omertà e di impunità del suo
paese. Per questo motivo fu cacciato di casa, giovanissimo, dal padre.
Fondò il circolo Musica e Cultura, che
promuoveva attività culturali e che diventò un importante punto di riferimento
per i ragazzi di Cinisi, occupandosi di ambiente, di campagne contro il nucleare
e di emancipazione femminile.
Nel 1977, con la sua cerchia di amici, creò
Radio Aut, un’emittente autofinanziata di controinformazione, dalla quale derideva
e sfidava la mafia e i politici locali, in trasmissioni satiriche e dissacranti.
La fine di Peppino, ucciso cinque giorni
prima della sua elezione a consigliere comunale di Cinisi - fu votato comunque
e fu simbolicamente eletto - cambiò drasticamente la vita di chi gli
sopravvisse. Di tanti amici e compagni, di sua madre, Felicia, di suo fratello
Giovanni, come di sua cognata Felicetta, che diventarono i custodi della sua
memoria e combatterono, a lungo e con coraggio, per ottenere giustizia.
Le nuove generazioni hanno bisogno di conoscere
queste storie che, al di là dell’omaggio alla memoria, dell’emotività
narrativa, del possibile rischio didascalico o retorico, trasmettono messaggi
educativi, rilanciano ideali popolari e sensibilità sociali, spesso
dimenticati.
Il futuro si può costruire anche in questo modo, perché la mafia
uccide e il silenzio e l’oblio pure. (Alfredo Laurano)
Nessun commento:
Posta un commento