Ieri
sera, a Cerveteri, diecimila persone hanno sfilato in corteo, con fiaccole,
magliette, cartelli, striscioni e palloncini per chiedere giustizia per Marco
Vannini, il ragazzo ucciso esattamente tre anni fa dal padre della sua
fidanzata, Antonio Ciontoli, in circostanze mai chiarite dal relativo processo.
“Verità andiam cercando, ch'è sì cara”, era certamente il pensiero intimo di
tutti e di ciascuno.
La
sentenza di primo grado e le miti condanne irrogate sono state ritenute
ingiuste e insufficienti da quasi tutto il popolo italiano. Comprese stampa e
TV che hanno seguito parecchio il caso, con inchieste, servizi, ricostruzioni e
trasmissioni di approfondimento.
Una
serata di straordinaria solidarietà e protesta che si è riflessa e replicata,
in contemporanea, anche in molte altre città: da Roma a Milano, da Cagliari a
Reggio Calabria, da Arezzo a Bologna, a Olbia e Sanremo, dove in tanti sono
scesi in piazza per dissociarsi da quella sentenza, emessa "non in mio
nome" - è lo slogan che ha guidato la protesta - diffondendo anche un
intenso tam-tam di video, immagini e dirette social, per chi non c’era o non
poteva partecipare.
Ma
anche per raccogliere i lamenti di Marco, uditi e riuditi nelle ormai note
telefonate al 118, che hanno trafitto e turbato le coscienze dei suoi genitori
e di migliaia di cittadini e famiglie, e rispondere, simbolicamente, alla sua inascoltata
domanda di aiuto.
Una
storia incredibile e odiosa, quella di Marco, che ha sconvolto la pubblica
opinione, non solo a livello mediatico, come insinua con malizia qualcuno.
La
ricostruzione del presunto incidente a Ladispoli, i tempi ritardati della
chiamata dell’ambulanza, l’omissione al telefono del colpo di pistola e le
altre bugie e contraddizioni nella versione iniziale dell’accaduto fanno
pensare a qualcosa di molto diverso dal fatto accidentale.
E’
per questo che il giudizio pronunciato il 18 aprile scorso dalla Corte d’Assise
ha suscitato dubbi e polemiche.
Resta
e si rinnova la voglia di giustizia, l’urgenza di sapere e di conoscere come e
perché un ragazzo di vent’anni sarebbe stato ucciso, per sbaglio, in una vasca
da bagno, a casa della sua seconda famiglia, che “lo amava tanto…come un figlio”
e che avrebbe potuto salvarlo, semplicemente soccorrendolo, con tempestività.
Un’esigenza
legittima, non solo ieri rappresentata a livello di popolo indignato, perché le
pene sono apparse comunque inadeguate e, soprattutto, perché la verità vera non
è ancora venuta fuori.
18
maggio 2018 (Alfredo Laurano)
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