Lodevolmente, Raitre ha appena messo in onda “Io sto con la sposa”, il docufilm del
2014, finanziato “dal basso”, del giornalista scrittore Gabriele Del Grande di
35 anni, recluso da dodici in un carcere turco, senza conoscere ancora
l’imputazione. Era stato fermato e arrestato il 9 aprile, al confine fra
Turchia e Siria, mentre raccoglieva immagini e interviste per un reportage.
Solo ieri, ha potuto parlare con il vice-console e con un avvocato.
Nel film,
selezionato a Cannes fuori concorso, cinque profughi siriani e palestinesi,
arrivati a Milano dopo essere sbarcati a Lampedusa, cercano di raggiungere la
Svezia, senza essere arrestati dalle varie autorità dei Paesi che attraversano.
I protagonisti
di questa avventura sono in fuga dalla guerra, dalle dittature e dai soprusi,
dalle loro città devastate, fiaccati dalla miseria e dal terrore.
Sono
sopravvissuti a un lungo e tormentato viaggio, alla traversata in mare, hanno
rischiato la vita, hanno perso compagni e i loro affetti e abbandonato tutto
quello che avevano costruito, prima dell’orrore della guerra.
Coinvolgendo
una giovane ragazza siriana con passaporto tedesco, il gruppo inscena un
matrimonio, con abiti adeguati, considerando che "nessuno oserebbe mai fermare un corteo nuziale".
E così, nei
quattro giorni trascorsi tra Milano e Stoccolma, passando per i monti al
confine con la Francia, il Lussemburgo, la Germania e la Danimarca, si
raccontano e raccontano le loro storie vere, i loro drammi, le loro speranze in
un futuro senza più né guerre né frontiere.
“Perché il sole è di tutti, il mare è di tutti”.
Le loro
semplici parole spiegano con sincerità e commozione - soprattutto agli
indifferenti - chi è veramente un profugo, chi ha dovuto fare una scelta
difficile, decidere necessariamente tra poche alternative, ugualmente
indesiderabili, ricordandoci che nessuno sceglie di essere un rifugiato e che
gli effetti dolorosi di quello status permangono anche dopo l'espatrio,
condizionando la vita futura.
Ad aiutarli
nell’impresa, un regista, un giornalista, un poeta siriano-palestinese ed
alcuni amici, tutti convinti che nella vita, prima o poi, bisogna scegliere da
che parte stare. Schierati da quella del sogno, disattendono le leggi sul
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e arrivano alla meta.
Il
coinvolgente documentario che Del Grande ha diretto insieme ad altri, ci fa
conoscere più a fondo il suo pensiero: quello di un operatore culturale
eticamente impegnato, di persona di grande umanità e sensibilità, che conosce
bene il fenomeno migratorio e che rischia in proprio per aiutare chi fugge
dalle bombe, chi non ha più diritti se non quello di essere salvato, chi ha
perso tutto e non ha mezzi, denaro e altre possibilità.
Ha realizzato un bel
film manifesto che squarcia
certi complici silenzi, ipocrisie politiche e istituzionali, logiche razziste e
luoghi comuni, diffusi ad arte da nemici della solidarietà, per spaventare e
fomentare odio e rabbia. Un documento che apre (già tre anni fa) la necessità
di un dibattito sulle leggi che hanno trasformato le nostre frontiere in
cimiteri.
Perché il
diritto - ricordando le parole di Hanna Arendt, non è neutro: “le leggi sono
scritte da uomini e a volte sono scritte male. Crediamo sia arrivato il tempo
di disobbedire, di dire che nessun essere umano è illegale”.
E che i
ventimila morti in mare di questo ventennio non sono vittime della burrasca, ma
delle leggi che hanno impedito loro di viaggiare in aereo, con un visto sul
passaporto.
E ora,
aspettiamo tutti che il sultano della mezza luna liberi Gabriele
.22 aprile 2017
(Alfredo Laurano)
Nessun commento:
Posta un commento