Finora,
la famiglia di Marco Vannini e tutti coloro che la sostengono e le sono vicino
da quasi quattro anni (e sono tantissimi in tutto il Paese), hanno conosciuto
solo gli aspetti peggiori, fallaci, ingannevoli e deludenti di un apparato,
virtuoso e umano, che si chiama Giustizia.
Quella
che stabilisce le regole di una pacifica convivenza, che afferma che la legge è
uguale per tutti. Quella che tutela i cittadini e le persone, che garantisce i
diritti di tutti e che è al di sopra delle parti. Quella che dovrebbe punire
chi sbaglia, chi insegue o pratica il male, chi uccide o lascia morire qualcuno.
Quella che veste di civiltà, dignità e cultura una qualsiasi comunità.
A
fronte dell’ondata di sdegno popolare, seguita alla sentenza d’appello del
processo Vannini, quei poveretti,
toccati già da tanta sofferenza, hanno dovuto anche leggere un paio di
articoletti di stampa di bastian contrari che, per esibirsi e mettersi in
evidenza, hanno pesantemente criticato le umane reazioni della madre e dei
coinvolti, hanno ridicolizzato la giusta protesta collettiva contro una
sentenza palesemente ingiusta e vergognosa, hanno evidenziato l’ignoranza della
gente in materia giudiziaria, hanno condannato il trionfo del cosiddetto giustizialismo:
“Al processo Vannini va in
scena l'ennesimo show in salsa giustizialista. In un paese dominato da
un’ignoranza diffusa in materia giuridica e dai risentimenti giustizialisti,
era quasi impensabile attendersi una reazione diversa dallo sdegno generato
dopo la sentenza”.
Ma
questi inflessibili censori delle umane debolezze ne hanno avuto anche col
sindaco di Cerveteri, Pascucci, reo di aver parlato di uno Stato in cui “la giustizia oramai è morta e le
istituzioni non sono più un riferimento credibile per i cittadini”, uno Stato
che non tutela i cittadini e che lascia impuniti gli assassini di Marco”.
Ma la cosa che ha fatto più
infuriare tutti, sono state le parole minacciose del presidente della Corte d'Assise
durante la lettura della sentenza, di fronte alla reazione della madre di Marco
Vannini che urlava "vergogna", le reazioni rabbiose e gli applausi
ironici dei parenti. "Questa è
un'interruzione di pubblico servizio ai sensi dell'articolo 40 del codice
penale. Vi volete fare una passeggiata a Perugia?". (Se qualcuno
commette un reato nei confronti di un giudice in un processo che riguarda Roma,
viene giudicato dal tribunale di Perugia).
E
così, al danno della mancata giustizia, di una sentenza per quasi tutti zoppa e
incomprensibile (vedremo le motivazioni), della inconsistente condanna degli
imputati, si è unita la beffa, la minaccia di denuncia e l’ennesima umiliazione
delle vittime di una tragedia che è diventata farsa.
Due,
però, in questa miserabile circostanza, le note positive: il ministro della Giustizia,
Alfonso Bonafede che, annunciando di aver "già
attivato gli uffici affinché vengano fatte tutte le verifiche e gli
accertamenti del caso", disapprova il comportamento e le parole
pronunciate dal presidente della Corte: "è
inaccettabile, sono indignato, che un magistrato interrompa la lettura della
sentenza per minacciare i presenti di fare un giro a Perugia" (non
proprio turistico).
E
la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, che, non potendo entrare nei meriti
della sentenza giudiziaria (esula dalle sue competenze e prerogative), garantisce
il suo massimo impegno - fin quando guiderà il suo ministero - affinchè al
signor Ciontoli non sia concesso il reintegro in forza armata.
Non sarà molto, non cancellerà
la viva percezione di un diritto mutilato, di una speranza soffocata e la sana voglia
di una giustizia giusta, ma almeno produrrà un momento di provvisoria attenuazione
del dolore e di pur necessaria dolce-amara consolazione.
1
febbraio 2019 (Alfredo Laurano)
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