…E
non “solo canzonette” e non solo un tormentone, anche se, come stacco musicale,
racchiude felicemente l’essenza del Festival e del variegato folklore che, da
sessantanove anni, gli gira intorno.
Si
sono accese di nuovo le luci sulla più famosa manifestazione canora italiana,
annunciata da trailers, slogan, spot infiniti e anche stucchevoli, da tweet
maliziosi, post iconoclastici e pareri non richiesti.
Canzoni,
colori, musica, arte, moda, spettacolo e (necessarie) polemiche di rito.
Niente
più fiori, come un tempo, ma inquietanti paratie e fasci luminosi, scale
immancabili, geometrie, spazi aperti e avveniristici, profondità fittizie, trampolini
e passerelle. Un
palco comunque ambito ed importante per chi mangia pane e musica, con contorno
di parole e di canzoni e, a volte, di denunce e riflessioni su politica e
società.
Dal
1950, per cinque giorni, il grande carrozzone mediatico-musicale sospende gli
eventi di mezza Italia. Volenti o no, appassionati o recalcitranti, è quasi impossibile
non farsi travolgere: la manifestazione diventa un evento nazionale per il
collegamento costante con la realtà del nostro Paese e non solo.
Sulla
ribalta dell’Ariston, oltre alla farfallina inguinale di Belen, sono approdati,
ad esempio, i temi della ricerca scientifica con il premio Nobel Renato
Dulbecco e quelli della storia contemporanea con Raissa e Mikhail Gorbaciov.
Amato
o criticato, il Festival della canzone italiana resta da sempre un po’ lo
specchio del Paese, attira immancabilmente l’attenzione dei giornali, dei
social, delle TV e dei media in generale, dei telespettatori e degli opinionisti,
veri o fittizi che siano: riesce, a differenza di altre analoghe manifestazioni
di costume, a sopravvivere alle mode e alle rivoluzioni sociali che hanno
attraversato e attraversano la società italiana.
Da Nilla Pizzi al Duo Fasano, da Modugno a Luigi Tenco, da Gigliola Cinquetti a Bobby Solo, da Mina a Lucio Dalla, da Patty Pravo a Celentano, da Renato Zero a Nada, da Nicola Di Bari a Ranieri e Ramazzotti, da Giorgia ad Arisa, da Povia a Cristicchi e alla scimmia di Gabbani.
Generalizzando,
con bonomia e benevolenza, tutta musica tra le note, come diceva Mozart.
Comunque,
San Remo non esiste. O meglio, si sa che nessun Remo santo è mai esistito, tant’è
che il suo nome non compare tra quelli del calendario.
Sarebbe
infatti la contrazione dialettale del nome Romolo, vescovo vissuto tra il IV e
V secolo, nativo di Villa Matutiae (l’odierna Sanremo), uomo saggio e buono, oggi
patrono della città. Il
povero Remo è quindi un nome adespota, come il suo celebre parente Remolo,
scoperto da Berlusconi.
6
febbraio 2019 (Alfredo Laurano)
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