Continua,
ininterrottamente, da giorni - esattamente dalla lettura della sentenza
d’appello del 29 gennaio scorso - la sollevazione popolare contro la decisione
della Corte, maturata in soli tre quarti d’ora, in merito al caso Vannini.
I
social e i giornali sono intasati di feroci critiche, di insulti, di
dissociazioni personali, di proclami, di voglie inconfessate di vendetta per la
giustizia mancata, offesa e mutilata.
Ferme
le condanne degli altri imputati, il Ciontoli padre - ritenuto (e creduto)
esecutore materiale dello sparo - è stato condannato a solo cinque anni, avendo
quella giuria (due giudici togati e sei popolari, che, in verità, non so quanto
abbiano pesato) derubricato il suo reato da volontario con dolo eventuale (come
in primo grado), a colposo.
Per
fare chiarezza, si tratta di omicidio colposo quando si è ucciso, senza aver
voluto determinare in alcun modo l'evento, se non come causa occasionale.
Significa,
cioè, che il reo non ha agito con la coscienza e la volontà di ammazzare
qualcuno: in questo caso, non ci sono prove che Ciontoli volesse uccidere il
fidanzato della figlia, l’ipotesi del colpo accidentale può anche essere
credibile.
Ma
quello che sorprende e scandalizza è il fatto che la morte di Marco sia stata
collegata al colpo, partito forse accidentalmente, e non a ciò che è accaduto
dopo.
Lo
sparatore e tutti gli altri hanno atteso COSCIENTEMENTE molto tempo prima di
chiamare i soccorsi, ne hanno rallentato l’intervento, descrivendo un banale
incidente, un buchino di pettine, un attacco di panico: quindi, la morte di
Marco, ferito, sia pur per errore, avrebbe dovuto essere collegata ad una
azione volontaria e consapevole, una particolare sfumatura che si definisce
“dolo eventuale”.
Tutti, Ciontoli in primis,
erano nella condizione di prevedere che tale condotta successiva allo sparo
avrebbe potuto “eventualmente” causare la morte di Marco Vannini, eppure, hanno
coscientemente accettato la possibilità che questa conseguenza si verificasse.
Hanno
scelto di non fare, di temporeggiare, di non sbrigarsi a chiamare aiuto, di non
salvare. Per questo motivo, in primo grado, Ciontoli era stato condannato a
quindici anni di reclusione.
In
un certo senso, questo verdetto d'appello ha spostato le reazioni popolari dal
piano razionale della giustizia a quello emotivo della vendetta. Desiderio,
questo, che emerge più forte quando si ha la percezione di una giustizia che
non abbia compiuto fino in fondo il suo dovere.
Nella
circostanza, è palese che la morte è stata determinata dalla non tempestività
dei soccorsi, dovuta a un comportamento dilatorio e menzognero.
La
derubricazione del reato a semplice omicidio colposo appare, pertanto,
ingiustificata e incomprensibile e ha dato luogo a una travolgente reazione
comune, che non è solo rabbiosa e assetata d'odio e voglia di rivalsa, ma supportata da
validi, innegabili motivi.
4
febbraio 2019 (Alfredo Laurano)
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