Ma il poeta invece sa perché “tanto di stelle per l’aria tranquilla arde e
cade, perché sì gran pianto nel concavo cielo sfavilla”.
Sono lacrime impotenti per la
malvagità dell’uomo che attraversano i cieli. “…E tu, Cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del Male!”
Era la notte di San Lorenzo, la notte delle stelle, la notte magica più pascoliana dell’anno.
E dopo una frugale cena, tutti sul prato, tra i fiori e l’erba rasa e profumata della sera, seduti sulle poltroncine un po’ inclinate, a rimirar quel cielo sterminato e luminoso.
Non fa caldo e in quel tratto
di Falisco, messo a giardino, si respira un’aria fine, profumata e senza vento.
Anche gli insetti e le zanzare, hanno smesso di ronzare, solo i grilli cantano
lontano.
Milioni di stelle a popolar
quell’infinito, leggendo i versi del poeta della “rondine che uccisero e cadde
tra spini, mentre portava nel becco la cena per i suoi rondinini” e quelli di
Trilussa, a condir quella notte di astri cadenti, attesi dalla leggenda e dalla
tradizione.
Una l’ho vista, l’ho colta al
volo, veloce e bassa a limitar le fronde e l’orizzonte, come metafora cruda
dell’esistenza. Un baleno, un lampo silenzioso, una scia leggera che quasi
sfugge ad ogni percezione, come la stessa nostra vita che appare e si dissolve,
senza lasciar traccia, né presenza.
Il mondo fa da sfondo e nulla
coglie nella sua totale indifferenza. Nemmeno sa del tuo passaggio, di
quell’attimo fuggente, di quella tua stella, magari luminosa, ma cadente. (Alfredo
Laurano)
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