Anche
Sara, o quel che ne restava dopo il rogo che le aveva riservato il suo
assassino, ha lasciato in via definitiva questo brutto mondo. Un mondo che le
sembrava normale e che viveva come tutte le ragazze della sua età, fatto di
sentimenti familiari, di amicizie e amori, di studi, passioni e desideri.
Molta
gente silenziosa e commossa le ha dato l’ultimo saluto ed alcuni suoi amici
l’hanno ricordata con un poster pieno di sue fotografie: mentre gioca, mentre scherza,
mentre danza, con quelle scarpette rosa, che la mamma ha posto tra le lacrime sul
feretro.
Scene
di ordinaria normalità in quel collage, momenti di quotidianità, di sorrisi e
di allegria di una ragazza, come tante, che coltiva sogni, speranze e futuro e
che non s’aspetta di finire la sua vita a 22 anni, solo perché un mostro che
diceva di amarla, ma che non ne disponeva più, come proprio giocattolo da
possedere, ha deciso che così doveva essere.
E
quel “suo” giocattolo, che si chiamava Sara, l’ha smontato, l’ha rotto e bruciato.
Ai genitori, agli amici, alla
comunità, all’opinione pubblica non resta, come sempre e come unico atto
consolatorio, che chiedere e aspettare giustizia: un ritornello che ormai è
diventato quasi un inno quotidiano, una specie di formula sacra che può donare
un grammo di conforto, se visto, soprattutto, come obiettivo minimo e possibile,
in funzione di preghiera e di meditazione.
Da
quando è morta Sara, ci sono stati già altri quattro femminicidi a Trieste, a
Padova, a Pordenone e a Taranto. Di quelli consumati prima di lei, abbiamo
perso il conto.
La
violenza nelle mura domestiche contro le donne è continua e incessabile.
È
un'escalation di brutalità con la quale non si può convivere, non può essere la
nostra normalità. E non parliamo di raptus, di attenuanti o di provocazioni,
quasi a giustificare l’orrore: la maggior parte delle donne uccise aveva già
subito molte minacce, spesso o quasi sempre sottovalutate.
Dobbiamo
pretendere la giusta e certa punizione dei colpevoli, ma soprattutto prevenire.
Tutti
- genitori, parenti, amici, vicini, insegnanti e datori di lavoro - abbiamo
l’obbligo morale e civile di vigilare contro la violenza e i maltrattamenti, contro
gli atti intimidatori e persecutori, i prodromi e gli indizi da cogliere per
tempo. Abbiamo il dovere di denunciare per proteggere e salvare ragazze, bambini
e madri di famiglia, non di partecipare con rassegnazione ai loro funerali.
Con
ogni mezzo consentito e con responsabilità e iniziative, soprattutto
istituzionali, vanno combattuti e cancellati i modelli che oggettivizzano e
degradano le donne e represse con durezza e senza sconti le odiose forme sessismo
e misoginia - palesi o camuffate - che dilagano sul Web e nella vita sociale
quotidiana, anche politica.
Va
rifondata la cultura del rispetto e della parità.
E,
soprattutto in questo senso, la scuola e le famiglie devono imparare ad educare
i maschi per farli diventare uomini.
Non basta esporre un drappo
rosso contro il femminicidio.
10 giugno 2016 (Alfredo
Laurano)
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