La società della comunicazione per immagini non lo permette. Ha delle regole sociali che si rifanno a un’aberrante etica, a un codice di comportamento e di conformità che tutti devono rispettare, se ne vogliono far parte, se non vogliono autoemarginarsi.
Tutto è in un click, in un look, in una
foto. Tutto si filma (risse, incidenti, pestaggi, omicidi), tutto finisce in Rete
e si propaga all’infinito.
E ciò vale sempre e dappertutto, nella
vita di tutti i giorni, nei rapporti umani, nella scuola, nel lavoro, nel gioco
e nel confronto. In ogni luogo, ad ogni età e, soprattutto, in quella
giovanile.
Il privato si fa pubblico, nel senso più
deleterio della transizione, e travolge ogni forma di intimità e riservatezza. Ma
non come negli anni della contestazione studentesca, quando si auspicava la trasformazione
politica e sociale dei propri bisogni in istanze collettive, alla luce di una
nuova dimensione esistenziale, dove l’individualismo, dismessi i panni della
singolarità egoista, vestisse quelli dell’uniformità e dell'uguaglianza
proletaria.
Oggi, ben altri sono i modelli e i valori
che dilagano nella ridicola comunità che si nutre di pane e botulino. Il mito
rivoluzionario di un tempo ha lasciato il campo a un’altra serie di bisogni
collettivi, estetici e formali: lifting, silicone, costose punturine, liposuzione,
mastoplastica e tecniche varie. Gli apologeti della chirurgia plastica
permettono di rimodellare il corpo a piacimento, come da disegno o su misura,
secondo i propri desideri.
Non c’è spazio e nessun alibi per la
diversità, per i difetti, per chi è piatto o in sovrappeso.
E non certo per
motivi di salute.
Basta un po’ di coraggio e un bel po’
di quattrini per ritrovare le linee dello standard, del come si dev’essere,
dell’armonia fisica, prestabilita dalle mode e dai profitti.
Ma se non puoi risolvere, se non accedi
alla miracolosa medicina, non hai speranze, devi soccombere e soffrire.
Sei grassa, ti senti grassa o sono gli
altri che ti fanno sentire brutta e grassa e ti deridono?
Allora, a quindici anni ti butti sotto
a un treno, nella stazione di Torino, davanti a compagni e professori.
Ti uccidi perché sei inadeguata, perché
ti prendono in giro, ti bullizzano con malvagità.
Beatrice amava la musica e voleva
diventare soprano, ma troppi le hanno fatto sentire il peso dei suoi chili,
anziché farle capire che la bellezza non è solo quella fisica. Chissà se i
genitori l’hanno compresa, aiutata e sostenuta o se lei si è chiusa nel dolore,
fingendo sogni, sicurezza e apparente normalità.
Il suo non poter essere se stessa, la
sua inaccettabile apparenza e la sua dimensione pubblica, insopportabile e
crudele, le hanno restituito intimità e privato, solo in un gesto estremo e disperato.
Una scelta definitiva per rinunciare a quella platea spietata, per uscire per
sempre da quello schifosissimo teatrino del vuoto conformismo, niente affatto
virtuale, come molti ancora pensano.
Indubbiamente, i cosiddetti social, che,
sempre più diventano discariche di odio, di violenza e delle peggiori
imbecillità umane, hanno giocato un preminente ruolo, come in altri precedenti
casi.
Negli ultimi anni, quelle pagine del
Web hanno partorito mostri che giocano, insultano e perseguitano i più deboli,
i più fragili e indifesi, i più, culturalmente, impreparati.
Sono il prodotto breve e l’espressione
concreta di una società degradata, dove lo strapotere della tecnologia ha
soppiantato l’umanità e la pietà.
Sono costoro i veri mandanti morali,
responsabili di questa morte e di troppi altri reati.
Niente, infatti, anche in questo caso, ha
fermato la cattiveria di queste belve utenti: "Non sapevo che farsi mettere sotto da un treno fosse un metodo rapido
di dimagrimento", ha scritto qualcuno, mentre un altro replicava: "Lei voleva solo farsi assottigliare
dall’impatto". O, “i ciccioni
preferiscono morire piuttosto che dimagrire".
I commenti macabramente ironici si
sprecano e le risate piovono: anche la morte non merita rispetto e fa parte del
gioco e dello scherzo.
Ma quanto schifo fanno quelle bestie,
visto che ormai non fanno più solo meraviglia?
Come dice lo psichiatra Andreoli, nei
social abbiamo perso l'individualità, crediamo di avere un potere che è
inesistente. Ci spingono a dire tutto, ci banalizzano. Creano una condizione di
compenso per le persone frustrate, ma vivere nella frustrazione genera rabbia che,
a sua volta, genera violenza.
Da sempre, i giovani si scontrano, litigano
e si beccano, ma, una volta, tutto finiva lì, nella strada o nel cortile. Oggi le
dispute continuano ad oltranza e si riverberano sul Web, assumendo ben altri
significati e dimensioni, fino, a volte, alle estreme conseguenze.
Chi ha spinto Beatrice ad arrendersi al
disagio non sa più distinguere tra bene e male, tra virtuale e reale. Si illude
di esistere e di essere persona, ma è soltanto uno scarto umano, inconsapevole
della propria mostruosità.
7 aprile 2018 (Alfredo Laurano)
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