Che bella fiction! Finalmente il racconto
di una bella storia fatta di umanità, di verità e di valori.
Quasi una favola
moderna che commuove perché parla di lealtà, di amicizia, di rispetto e di
buoni sentimenti, a cui non siamo più abituati, e rimanda a un tempo che appare
assai lontano, quasi dimenticato.
Tutto
incorniciato in una magnifica sceneggiatura, dove trovano spazio voci,
immagini, luoghi del ricordo e ambientazioni fedeli e assai curate, nonché
momenti, anche scomodi e difficili, dell’Italia del dopoguerra, che cerca di
ricostruire, di ricominciare, di ripartire.
Con “Non è mai troppo tardi”, in onda pochi
giorni fa, la Rai centra perfettamente il suo ruolo di servizio pubblico, facendo
conoscere, soprattutto ai più giovani, il coraggio e la figura, quasi
leggendaria, del maestro Manzi, protagonista e simbolo, sia sul piano umano che
su quello professionale, di quel pezzo d’Italia di quell’epoca (1946-1968)
che, pur piena di disagi e di problemi, cresceva e lentamente si emancipava.
Magistrale l’interpretazione di Claudio
Santamaria (per la cronaca, amico e compagno di liceo di mia figlia), lodevole
ed espressiva quella di tutti gli altri attori, soprattutto i giovani, ognuno
aderente al ruolo e ben calato nella parte. Luminosa e adeguata la fotografia,
puntuale e sicura la regia.
E’ la storia di un uomo che insegnò a
leggere e a scrivere agli italiani, un eroe positivo che, prima nelle scuole,
poi in televisione, portò un nuovo modo di pensare e di parlare ai ragazzi,
agli adulti e a tutti i cittadini: nelle città, nelle campagne, nelle comunità
e in ogni luogo popolare.
Nel suo progetto pedagogico, che perseguì
per tutta la vita, si proponeva di sollecitare le capacità delle persone, anche
secondo circostanze naturali e pretesti del tutto occasionali, di favorire
l’apertura della loro mente e di lottare, con tenacia e convinzione, per ridare
dignità a chi non aveva mezzi e possibilità di studiare: “ognuno fa quel che
può, quel che non può, non fa.”
D’altra parte, Manzi “si era fatto le ossa” come docente nel carcere di minorile di Roma, luogo da cui erano scappati i suoi quattro predecessori: lui conquistò, tra mille difficoltà ambientali e normative, gli 86 ragazzi rinchiusi, e i ragazzi - soprattutto quelli “difficili ” - non regalano affetto e rispetto a chi non sa amarli.
Un’esperienza formativa dal sapore
romantico che, certamente, lo segnò sul piano della sensibilità e lo fece
crescere su quello del confronto fra le diversità e le discriminazioni, in un
percorso scandito dalla passione e dall’entusiamo.
Era quello che – lo testimoniano ancor’oggi
anche molti suoi ex alunni - insegnava a parlare, senza la paura di
sbagliare. Che non amava i voti e iregistri. Che invece di dare risposte
rituali, chiedeva “tu che ne pensi”, che era veramente interessato alle
opinioni di tutti su grandi temi come la democrazia, la politica, la
scienza, l’immigrazione, già in quei lontani anni cinquanta.
Per il tempo, era il comportamento
fortemente innovativo e rivoluzionario, ma pur sempre gentile e misurato, di un
insegnante che credeva in una scuola agile, flessibile, non dogmatica e aperta
al dubbio e alla sperimentazione.
Un disobbediente che spronava gli alunni ad aver fiducia in se stessi e a sviluppare la curiosità per il sapere, a prescindere da regole rigide o dalle diverse condizioni sociali: ”non rinunciate mai, per nessun motivo, sotto qualsiasi pressione, ad esser voi stessi. Siate sempre padroni del vostro senso critico e niente potrà farvi sottomettere”.
Un disobbediente che spronava gli alunni ad aver fiducia in se stessi e a sviluppare la curiosità per il sapere, a prescindere da regole rigide o dalle diverse condizioni sociali: ”non rinunciate mai, per nessun motivo, sotto qualsiasi pressione, ad esser voi stessi. Siate sempre padroni del vostro senso critico e niente potrà farvi sottomettere”.
La
trasmissione - andata in onda dal 1960 al 1968 - ebbe un importante ruolo
sociale ed educativo nell'unificazione culturale della nazione, tramite
l'insegnamento della lingua italiana – pochi la parlavano, privilegiando i
dialetti regionali - e contribuì non
poco ad abbassare il tasso di analfabetismo, particolarmente elevato nell'Italia di
quegli anni. Pare che, grazie a queste lezioni a distanza, quasi un milione e
mezzo di persone sia riuscito a conseguire la licenza elementare.
A vedere “Non è mai troppo tardi”, oggi, prende una certa nostalgia: non tanto o non solo per i costumi e la televisione di quel tempo, sobria, discreta e popolare, ma per il ricordo di una vita semplice e appagante - che, in buona parte, quella stessa Tv rifletteva - dove stima, affetti, sogni e passioni della gente si fondono in un’unica emozione collettiva, che commuove e fa pensare.
L’avventura didattica di Alberto Manzi,
così ben raccontata nel film, evoca e rappresenta questo turbamento e coinvolge
lo spettatore fino all’empatia, nei confronti di una persona che lavorava per
una società migliore e sognava una scuola che, attraverso lo studio, insegnasse
a diventare cittadini.
Ricordando Kant, il maestro Manzi non
voleva insegnare i pensieri, ma doveva insegnare a pensare (detto oggi, suona
come un ameno calembour renziano), “.…con quel macinino del vostro cervello
sempre in funzione, con onestà, onestà e ancora onestà, perché questa è la cosa
che manca oggi nel mondo e voi dovete ridarla!” (era il 1975 quando scrisse
questo nella lettera a suoi alunni di quinta. Oggi, fa un certo effetto!).
Così Manzi, che aveva ben capito
l’importanza dell’educazione e del ruolo fondamentale dell’insegnante, si
sforzava di offrire “ai bambini di oggi che sono il futuro di domani”, i
necessari strumenti culturali e formativi per affrontare le dinamiche della
società e le contraddizioni umane e del mondo.
E li guidava, carico di speranza, verso la
vita, la maturità e la consapevolezza.
Era davvero il “Maestro” che tutti
vorrebbero e che tutti avremmo voluto avere.
27 febbraio 2014
AlfredoLaurano
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