Con
la benedizione delle Frecce Tricolori e della parata del 2 giugno, con tanto di
bandierone nazionale di 400 metri quadri, spiegato in cielo e atterrato col
paracadutista davanti alla tribuna autorità, è nato il soffertissimo governo
del “cambiamento”.
Dopo
tre mesi di prove, di manicomio, di accordi e disaccordi, di rilanci e minacce
di soluzioni tecniche, di ultimatum e di opposizioni preventive al nulla (cioè,
in assenza della reale materia cui opporsi), di bizze da Romanzo Quirinale, il
semaforo della corrida politica ha visto finalmente la luce giallo-verde: ora
si dovrebbe forse dire giallo-blu, viste le nuove scelte cromatiche della Lega
che, dopo aver cassato il “nord”, pare abbia anche rinnegato il “verde padano”.
L’alternativa
sarebbero state naturalmente, le elezioni molto anticipate, con cabine e seggi
al mare e sulle spiagge e un virtuale governicchio balneare, privo di consenso
alcuno, che ci avrebbero regalato - come ricordava anche Travaglio - un
magnifico patto di governo Lega-Forza Italia, con un Salvini sicuro e unico Premier
(e non come oggi solo ministro), alleato del vecchio Berlusconi riciclato.
Tra
i due mali, forse si è scelto il minore o il meno peggio.
Anche
perché, con il suo demenziale e preventivo Aventino, il PD, senza identità,
senza progetti e in balia di leader confusi e improvvisati, ha continuato ad
annaspare in una crisi senza fine, ha mostrato i segni di una sconfitta che non
sa elaborare, ha preferito sgranocchiare pop corn al cinema Parlamento, parlando
impunemente e a casaccio di Sinistra (?) e fronti repubblicani, consumandosi in
un'intifada interna permanente.
Incapace
di costituirsi alternativa credibile, è riuscito soltanto a farsi odiare dalla
gente. Non ha lasciato spazio ad altre soluzioni e, visti i numeri scaturiti
dalle urne il 4 marzo, non ha consentito un compromesso fra due culture e
sensibilità diverse, ma non opposte, non antitetiche, nonostante le accuse e
gli insulti reciproci. Un “contratto” tra quelle due forze - PD e Cinque Stelle
- sarebbe stato comunque possibile e preferibile, con un partito però
derenzizzato e un centrosinistra profondamente rinnovato.
Ora
non resta che far prevalere il buonsenso e la ragione dopo tante sparate, contraddizioni,
fallimenti, ripensamenti e imprevedibili colpi di teatro.
Abbiamo
una soluzione di compromesso, non certo entusiasmante, ma nemmeno terrificante
come l’hanno dipinta in molti, prim’ancora che nascesse. E’ un governo carico
di aspettative e promesse che gode di un ampio consenso nel Paese, pur fra
mille dubbi e incertezze. Tre mesi di difficile gestazione hanno rimescolato le
carte e i valori in campo, che non sono più quelli del giorno del giudizio
elettorale.
Ci sarà tempo e modo per
giudicare il governo Conte, Di Maio, Salvini, guardando i fatti, le scelte e
non solo le intenzioni. Intanto, tra i ministri, tecnici e politici, come osserva
sempre Travaglio, non c’è neppure un inquisito o condannato, per la prima volta
dal 1994, e nessun ministro puzza di berlusconismo.
Il
programma prevede una serie di proposte e di riforme a lungo attese, come prescrizione,
anticorruzione, carceri, manette agli evasori, conflitti d’interessi, Rai, Tav,
acqua pubblica, green economy, vitalizi, Buona Scuola, reddito di cittadinanza,
salario minimo, revisione della Fornero, flat tax o equa riduzione delle
aliquote fiscali.
I
pericoli potrebbero arrivare dal Viminale, se il guascone Salvini - ormai padrone
del linguaggio e della piazza - tornasse a rivestire i panni del Cazzaro Verde,
xenofobo e cattivo, in campagna elettorale permanente, e, nell’euforia del fare
tutto e subito, dal possibile sfascio dei conti pubblici, per attuare a tutti i
costi le riforme.
E,
mentre Berlusconi schiuma rabbia perché, per la prima volta, pare ridotto a “pelo
superfluo della politica” (cit.), come i suoi compari renziani, il giovane Di Maio,
tornato felice e sorridente, è salvo per miracolo. Se non fosse riuscito a
portare il Movimento al governo, dopo impegni, sfide, forni, speranze e tormenti,
avrebbe pagato un prezzo altissimo, forse la fine della sua carriera. Ne era
consapevole e per questo ha ceduto all’ira che lo ha portato a fare errori
clamorosi, generando imbarazzo e ilarità: ha pagato questi tre mesi di struggente
passione, salvando la faccia e la parola, ma lasciando forse sul
campo un bel pezzo di consenso.
Ora,
comunque, ha il tempo di rifarsi e di recuperare, Salvini permettendo.
(Alfredo Laurano)
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