Qual è la
benedetta follia di Guglielmo, depresso e malinconico titolare di un
impeccabile negozio d’arte sacra, abbandonato all'improvviso dalla moglie dopo
venticinque anni? Quella di Luna,
giovane ed esuberante borgatara romana, con problemi economici e familiari, che
irrompe in mini di pelle o short pants e zeppe da cubista nella sua routine
quotidiana e si propone come nuova commessa, con tanto di “er curricula” e
quattro parole di inglese masticato, in tutti i sensi?
O
quella della botta di vita esagerata e sconvolgente - “basta, non voglio più
solo esistere, ma vivere” - procurata da una pasticca di ecstasy, spacciata al
poveretto come paracetamolo?
Fin
da subito, si delinea nel film una sorta di conflitto tra sacro e profano, tra
materia e spiritualità, tra romanticismo e trasgressione dei sensi e della
carne.
Dal
cardinale paffuto e godereccio, che a ogni movimento strappa l’abito in prova,
alla inappuntabile suora laica polacca, esperta e preparata, altra aspirante
concorrente al posto.
Dalla
seriosità di costei - quale antitesi evidente - al carattere della
sfacciatissima coatta, animata da tanta buona volontà, ma incapace e poco
adatta a lavorare in quel genere di negozio, tra musica celestiale, tabernacoli
e madonne, o a quello diametralmente
opposto del rassegnato Guglielmo – contrapposto ai modi spicci e violenti degli
ex “datori di lavoro” della stessa intraprendente Luna – che, a sua volta, lo
travolge, lo ammalia e lo iscrive a un sito per incontri proibiti di single
allo sbaraglio, per farlo uscire dal suo guscio di tristezza.
Grazie
alle intuizioni della bella neo commessa, il Guglielmo ferito, abituato a pie
frequentazioni di alti prelati, incontra vari personaggi femminili in
appuntamenti al buio, più comici che erotici, più paradossali che bizzarri e
stravaganti: l’alcolizzata disinibita e pratica; l’ipocondriaca logorroica che
si districa fra desiderio, colesterolo e glicemia; la ninfomane lasciva alle
prese con giochetti spinti di vibrazione al ristorante, che finisce in
emergenza ginecologica: “Ma dove l'hai
messo? - Nel posto più bello del mondo...! - Ridamme il telefono! - Non
posso...”
Caricature
e situazioni estreme e surreali, ma nemmeno tanto e non volgari, in linea con
le ansie esistenziali e le scelte di tendenza, ma anche condizionate da
contraddizioni, possibilità e limiti offerti dalla tecnologia (chat, app, cuori
solitari on line, correttore di scrittura, vocabolario facilitato ecc.)
Inizialmente turbato e reticente, il confuso commerciante si rimette in gioco e
si confronta allo specchio con un se stesso giovane, con la passione della moto
e della musica, facendo emergere la figura di un sessantenne fragile e
infelice, consapevole della sua età e condizione sociale, ma che cerca di
reagire alla delusione di una moglie sedicente lesbica.
Coincide e si
sovrappone al Verdone d’oggi, maturo e disincantato, che dialoga con quello
prima maniera, tutto fico, coatto e un sacco bello. E lo osserva con qualche
rimpianto.
“Benedetta
follia” comprende tutti gli elementi del suo stile, ormai noto e consacrato:
alterna spunti, risate e trovate comiche a momenti di dolce malinconia e
nostalgia. Come nella riflessione su quel tempo che "non tornerà mai più", sottolineata dalle stupende note
de "La stagione dell'amore" di Battiato, o nei dialoghi riservati e
timidi con l’infermiera Ornella.
Tutta
la trama, semplice e originale nello stesso tempo, non sempre, però, è supportata da una
adeguata sceneggiatura, tanto da apparire un po’ forzata, disunita e, a tratti,
approssimativa. Al contrario dell’eccellente, fluida interpretazione di tutto il cast,
veramente “benedetta”.
Le situazioni che si susseguono sembrano una serie di sketch slegati, quasi casuali, utili a creare occasioni e pretesti di naturale comicità.
Le situazioni che si susseguono sembrano una serie di sketch slegati, quasi casuali, utili a creare occasioni e pretesti di naturale comicità.
La narrazione, di conseguenza, ne soffre,
resta piuttosto discontinua, a volte enfatica o esagerata nei tempi, come nella
lunga sequenza dell’allucinazione lisergica e del ballo psichedelico, o nella
caratterizzazione sotto tono di certi personaggi di contorno, poco credibili
(il padre di Luna, i gestori della discoteca). Tempi, movimenti, battute,
espressioni prendono tuttavia corpo e vivacità, grazie alla innegabile capacità
di giocare, di far ridere e di prendersi in giro del poliedrico cineasta
romano, pur nelle pieghe e nei dettagli di un tessuto frammentato e un po’
sconclusionato.
Vincente,
in ogni caso, l’idea di esplorare ancora una volta l’universo femminile
attraverso il forte contrasto fra due protagonisti, diversissimi fra di loro,
che non recitano, ma si incontrano e simpatizzano empaticamente, tra artifici
retorici esilaranti di sicuro effetto.
Fino al finale a sorpresa, imprevedibile e teatrale, quanto improbabile
e favolistico, che nulla toglie o aggiunge all’economia narrativa del film, pur
svelando quegli equivoci e quel certo pudore che costituiscono la cosiddetta
vena “malin-comica” dell’autore.
(Alfredo Laurano)
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