Aveva fatto molto discutere, qualche
giorno fa, il video editoriale della conduttrice TV tedesca Anjar Reschke che
aveva usato la sua striscia di due minuti per lanciare l'allarme
sull'esplosione dell'odio contro i rifugiati, che si autoalimenta sui social
network: "Fino a poco tempo fa i razzisti commentavano usando pseudonimi.
Ora non si vergognano più, anzi frasi come, sporchi parassiti dovete annegare
in fondo al mare, ottengono valanghe di mi piace. E' ora di ribellarsi: quelli
che fomentano l'odio su internet devono sapere che non sono tollerati".
Un vero e proprio manifesto contro l’odio
razziale. "Opponetevi, parlate, svergognateli in pubblico", rivolto
della gente per bene.
A chi si bea e si nutre di quel mix di
ignoranza, di razzismo, di turpitudine indecente e di brama populista, vorrei
anch’io raccomandare una cosa molto semplice: prima di vomitare parole d’odio e
manifestare disprezzo, cinismo e indifferenza, pensate nella vostra mente
deragliata a questa immagine simbolo, che parla agli occhi e fa male al cuore e
alla coscienza.
Un’ immagine che ne rappresenta mille, che
descrive una tragedia immensa, che sembra finta o tratta da una fiction, che
trasmette un significato che va oltre la presunta razionalità, che denuncia
l’egoismo di noi tutti, che racconta l’orrore della guerra e della morte e di
un mondo che non sa proteggere i bambini e gli indifesi. Un corpicino minuto e
composto, dignitoso nei suoi eleganti abiti e scarpette, che sembra dormire
esausto, come un bambolotto abbandonato, in un mare appena conosciuto, ma solo
per morire.
Rivedetela, ogni volta, nella vostra
testa, prima di aprire bocca o di scrivere cazzate e infamità. Prima di
insultare e sputare veleno.
Perché anche i vostri pregiudizi sono
simboli, come lo sono la vostra bassezza morale, come lo sono quelli che
accompagnano, rappresentano e indirizzano scelte di vita, politiche e religiose
di ciascuno.
Perché tutti noi viviamo immersi nei
simboli.
Perché i simboli parlano, esprimono e
comunicano più delle parole.
Perché i simboli usano un linguaggio
metaforico, ma universale.
Perché
Aylan, quel bimbo siriano di tre anni, su quella sabbia, non ha mai giocato.
3
settembre 2015 (Alfredo Laurano)
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